La Cassazione si è confrontata più volte con la responsabilità del sanitario derivante dal ritardo nella diagnosi di un processo morboso terminale

di Valeria Zeppilli - Il ritardo nella diagnosi di un processo morboso terminale comporta, in capo al medico, una responsabilità che discende non solo dalla lesione di un bene del paziente di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, ma anche dalla perdita della chance del malato di sopravvivere più a lungo e di conservare una migliore qualità della vita.

Con la questione, nel corso degli anni, la giurisprudenza si è confrontata diverse volte, delineando gli esatti confini della rilevanza giuridica del ritardo diagnostico da parte del sanitario.

Violazione del diritto di determinarsi liberamente

Ad esempio, nella sentenza numero 7260/2018, la Corte di cassazione ha chiarito cosa debba intendersi per violazione del diritto del malato terminale di determinarsi liberamente nello scegliere quali percorsi esistenziali compiere nelle sue condizioni di vita, precisando che essa non coincide con la perdita della chance di operare delle singole specifiche scelte di vita, quanto piuttosto nella lesione di un bene che è già di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale e che quindi, attestato il colpevole ritardo diagnostico da parte del medico, non richiede alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria e può legittimare una condanna del sanitario al risarcimento del danno fondata su di una liquidazione equitativa.

La qualità della vita del paziente

Con la sentenza numero 16993/2015, invece, la Corte di cassazione ha parlato di migliore qualità della vita" che il paziente, a seguito dell'omissione della diagnosi del processo morboso terminale del quale è affetto, ha perso la chance di conservare, così rinunciando "alla possibilità di programmare (anche all'esito di una eventuale scelta di rinunzia all'intervento o alle cure…) il proprio essere persona, e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle proprie attitudini psico-fisiche in vista e fino a quell'esito".

Già qualche anno prima, nella sentenza numero 23846/2008, la Corte aveva sul punto affermato che "l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in quanto nega al paziente, oltre che di essere messo nelle condizioni per scegliere, se possibilità di scelta vi sia, "che fare" nell'ambito di quello che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all'esito infausto, anche di essere messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche nel che quell'essere si esprime, in vista e fino a quell'esito, integra l'esistenza di un danno risarcibile alla persona".

Ritardo dell'intervento palliativo

La stessa sentenza del 2008 ha anche specificato che "l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento cd. palliativo, determinando un ritardo della possibilità di esecuzione di tale intervento, cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che nelle more egli non ha potuto fruire del detto intervento e, quindi, ha dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto, sua pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze".

Valeria Zeppilli

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