Per il Tribunale di Milano è in colpa la donna che ha costretto il ricorso all'autorità e non ha rinunciato venuta meno la materia del contendere

di Lucia Izzo - Paga non solo le spese, bensì anche una somma per "lite temeraria" la madre che ha costretto il padre della bambina ad adire l'autorità giudiziaria per la prova del DNA che l'uomo voleva effettuare stragiudizialmente e poi, venuta meno la materia del contendere, ha assunto un comportamento processuale a fini dilatori.


Lo ha stabilito il Tribunale di Milano, sentenza del 10 Maggio 2017 (Est. Rosa Muscio), pronunciandosi su una vicenda riguardante riconoscimento di paternità. Il presunto padre e i nonni della bambina avevano dovuto adire il giudice per ottenere l'esame del DNA volto a stabilire definitivamente che l'attore fosse il padre della piccola.


Infatti, il comportamento della madre aveva fatto sorgere dubbi sulla paternità riconosciuta dall'attore: la convenuta, infatti, aveva continuato a risiedere con il precedente fidanzato, nonostante la dimora approntata per lei e la piccola dal presunto padre, aveva impedito i rapporti di questi e dei nonni con la bambina e aveva negato di procedere a un accertamento del DNA per fugare ogni dubbio, nonostante l'uomo si fosse accollato diverse spese per la piccola e avrebbe pagato anche quelle dell'esame.


In sede di giudizio, a seguito di accertamento tecnico, era poi emersa l'effettiva paternità dell'attore e da qui, lui e i suoi genitori, si dimostravano disponibili a rinunciare al giudizio e a conciliare mentre la convenuta, lungi dal trovare una soluzione conciliativa, chiedeva venisse limitata la responsabilità genitoriale del padre e dei nonni materni, nonché ogni preteso diritto, e chiedeva anche un risarcimento danni.


Dato atto dell'intervenuta cessazione della materia del contendere, dichiarate inammissibili le pretese di parte convenuta (la domanda sulla responsabilità è estranea al giudizio) e respinto il risarcimento del danno chiesto da lei (sfornito di ogni supporto) e dagli attori, i giudici meneghini ritengono che alla madre della bambina vadano addossate non solo le spese processuali, bensì anche una somma ulteriore per resistenza colposa in giudizio ex art. 96 del codice di procedura civile.

Lite temeraria: condanna alle spese e della somma ex art. 96 c.p.c.

Come osservato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., ord. 3003/2014 e 21570/2012) la colpa grave ex art. 96 c.p.c sussiste quando la parte omette di osservare la minima diligenza nella preliminare verifica dei necessari presupposti per la proposizione della domanda giudiziale e/o per la resistenza alla domanda altrui: diligenza che dovrebbe consentire di avvedersi dell'infondatezza della propria pretesa e/o della propria linea difensiva.

La norma risponde a una funzione sanzionatoria delle condotte di chi, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si serva dello strumento processuale a fini dilatori o del tutto strumentali, contribuendo ad aggravare il volume del contenzioso, già di per sé notoriamente eccessivo, e, conseguentemente, a ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti.

Un assunto confermato anche dalla sentenza n. 152/2016 della Corte Costituzionale secondo cui l'art. 96, comma 3, c.p.c. istituisce un'ipotesi di condanna di natura sanzionatoria e officiosa prevista per l'offesa arrecata anche alla giurisdizione.

La donna, pertanto, paga sia le spese di lite, sia alle parti attrici una somma equitativamente determinata in 3.300 euro. I dubbi sulla paternità che hanno originato il giudizio appaio fondati per i giudici, rafforzati dalle risultanze anagrafiche che mostrano la convivenza della donna con il precedente fidanzato in un'epoca compatibile con il concepimento della bambina e la sua condanna è confermata dai comportamenti ostacolanti che questa ha assunto sia stragiudizialmente che in pendenza di giudizio, dove gli attori si erano dichiarati pronti a rinunciare alla pretesa e conciliare.


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