
Avv. Daniele Paolanti - L'interruzione volontaria di gravidanza è un fenomeno che ormai da molti anni conosce una regolamentazione specifica nel nostro paese, così come nella maggior parte dei paesi occidentali. Esso è l'esito della scelta della donna di non portare avanti una gravidanza e, quindi, di sottoporsi a un intervento che ponga fine alla gestazione.
Vediamo com'è disciplinata l'interruzione volontaria della gravidanza in Italia:
- Interruzione volontaria gravidanza: legge
- Interruzione volontaria della gravidanza in Italia
- Interruzione volontaria gravidanza: procedura
- La giurisprudenza sull'interruzione volontaria di gravidanza
Interruzione volontaria gravidanza: legge
In Italia, la disciplina dell'interruzione volontaria di gravidanza è contenuta nella legge 194/1978, il cui articolo 1, nel tracciare gli obiettivi fissati dal legislatore, dopo aver specificato che "Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio", precisa che "L'interruzione volontaria della gravidanza ... non è mezzo per il controllo delle nascite" e che quindi "Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite".
Chiariti in tal modo gli intenti del legislatore, la legge 194 stabilisce i limiti dell'interruzione volontaria della gravidanza e il procedimento attraverso il quale la stessa può essere esperita.
Interruzione volontaria della gravidanza in Italia
Venendo alle ipotesi che consentono l'interruzione volontaria della gravidanza in Italia, occorre distinguere tra il caso in cui la stessa venga chiesta entro i primi novanta giorni di gestazione e il caso in cui la stessa venga chiesta successivamente.
Nel dettaglio:
- se si è entro il limite dei 90 giorni, la donna deve rivolgersi a un consultorio pubblico o a una struttura sociosanitaria abilitata o a un medico di sua fiducia e prospettare le circostanze per le quali "la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito";
- dopo i primi novanta giorni, l'interruzione volontaria della gravidanza è invece possibile solo quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (in questo secondo caso, a meno che non sussista la possibilità di vita autonoma del feto).
Interruzione volontaria gravidanza: procedura
L'interruzione volontaria della gravidanza avviene presso una delle sedi autorizzate.
Nel caso in cui si sia entro il limite dei 90 giorni, la stessa è possibile dopo un iter molto più complesso, teso a evitare che un intervento così delicato venga svolto senza la piena consapevolezza della scelta che si sta compiendo e, in tal modo, a controbilanciare la sostanziale libertà che viene lasciata alla donna nell'interrompere la gravidanza.
In particolare, il consultorio e la struttura socio-sanitaria alla quale la donna si è rivolta devono esaminare le possibili soluzioni dei problemi proposti, aiutare la donna a rimuovere le cause che la porterebbero a interrompere la gravidanza, metterla nella condizione di far valere tutti i diritti di lavoratrice e di madre e porre in essere tutti gli interventi atti a sostenerla. Se, invece, la donna si è rivolta a un medico di fiducia, questo è chiamato a valutare le circostanze che determinano la donna a chiedere l'interruzione e la informano su tutti i suoi diritti, sugli interventi sociali ai quali può accedere e sui consultori e le strutture socio-sanitarie. La donna è poi invitata a soprassedere per sette giorni, trascorsi i quali può presentarsi presso una sede autorizzata per ottenere l'interruzione della gravidanza.
Quando, invece, l'interruzione venga chiesta dopo i 90 giorni in ragione della sussistenza di specifici processi patologici, questi vanno prima accertati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico, che deve certificarne l'esistenza, salvo il caso in cui vi sia un imminente pericolo per la vita della donna.
In entrambi i casi, la richiesta di interruzione volontaria della gravidanza è fatta dalla donna. Se questa è minorenne, serve l'assenso di chi esercita su di essa la responsabilità genitoriale o la tutela. A tale ultimo proposito, va detto che tuttavia, nei primi novanta giorni, è possibile interpellare il giudice tutelare se vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione delle persone esercenti la responsabilità genitoriale o la tutela o se queste, interpellate, rifiutino l'assenso o esprimano pareri difformi.
Infine, se la donna è interdetta, la richiesta di interruzione volontaria della gravidanza può essere presentata anche dal tutore o dal marito non tutore, non legalmente separato.
La giurisprudenza sull'interruzione volontaria di gravidanza
La giurisprudenza sull'interruzione volontaria di gravidanza è davvero copiosa.
Un cenno particolare merita la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 25767/2015, con la quale i giudici hanno ammesso che "L'impossibilità della scelta della madre, pur nel concorso delle condizioni di cui all'art. 6, imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile. La gestante, profana della scienza medica, si affida, di regola, ad un professionista, sul quale grave l'obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue richieste; senza limitarsi a seguire le direttive della paziente, che abbia espresso, in ipotesi, l'intenzione di sottoporsi ad un esame da lei stessa prescelto, ma tecnicamente inadeguato a consentire una diagnosi affidabile sulla salute del feto".
Tuttavia, in relazione ai diritti del nascituro, la Suprema Corte ha ammesso anche che "Non si può dunque parlare di un diritto a non nascere; tale, occorrendo ripetere, è l'alternativa; e non certo quella di nascere sani, una volta esclusa alcuna responsabilità, commissiva o anche omissiva, del medico nel danneggiamento del feto. Allo stesso modo in cui non sarebbe configurabile un diritto al suicidio, tutelabile contro chi cerchi di impedirlo: che anzi, non è responsabile il soccorritore che produca lesioni cagionate ad una persona nel salvarla dal pericolo di morte (stimato, per definizione, male maggiore)".
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Vincitore del concorso di ammissione al Dottorato di Ricerca svolge attività di assistenza alla didattica.