Non si tratta di un plagio della mascotte americana. I due "pupazzi" sono nettamente diversi

di Redazione - Dopo tre lustri il contenzioso tra la Crossland Enterprises e l'Adfra, si è concluso. La Cassazione (con la sentenza n. 503/2017 qui sotto allegata) ha decretato definitivamente che il noto inviato di Striscia La Notizia, il Gabibbo, non è un plagio dell'americano "Big Red", mascotte sportiva della Western Kentucky University.

Gli Ermellini, non solo l'hanno data vinta a Mediaset e Fininvest, assicurando così un lungo futuro al pupazzo della trasmissione satirica di Antonio Ricci, ma si sono prodigati in una lunga dissertazione sulle differenze tra i due personaggi.

Per i giudici di piazza Cavour, intanto, come ritenuto dalla corte d'appello, Big Red non ha tratti così particolari da distinguerlo da altri pupazzi, che, partendo da Barbapapà ai Muppets, rappresentano "goffi umanoidi, costituiti da una massa amorfa di colore rosso, con grande testa e occhi e bocca larga". E dunque la creazione dello studente Ralph Carey non è così originale da "raggiungere la soglia della creatività minima richiesta per la tutela" del diritto d'autore.

E non ci sono solo differenze estetiche tra i due pupazzi (dalla forma degli occhi, al taglio della bocca, ecc.), ma anche di "personalità": uno è tifoso di pallacanestro e l'altro reporter.

Big Red, insomma, per il Palazzaccio, è "un'espressione scontata e banale" sia per la "semplicità delle linee" "delle soluzioni grafiche, di idee formali realizzate" e, dunque, il plagio va escluso.

Per cui la richiesta delle società americane che avevano fatto causa a Mediaset e Fininvest chiedendo di levare dallo schermo il molleggiato pupazzo rosso, va rigettata.

Il Gabibbo, ha commentato soddisfatto Antonio Ricci, "rappresenta il populismo, la pancia, non parla: rutta. Vuol significare che in tv qualunque banale pupazzo, se bercia o arringa moraleggiando, può ottenere il massimo della credibilità e popolarità. Condannarlo - insomma - sarebbe stata una vera e propria assurdità".

Cassazione, sentenza n. 503/2017

Foto: 123rf.com
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