Per essere accusati di diffamazione non servono nome e cognome se il destinatario dell'offesa è comunque chiaramente identificabile

di Valeria Zeppilli - Innegabilmente, Facebook e gli altri social network hanno ampliato le capacità comunicative di tutti coloro che decidono di avvalersene, permettendo ai vari utenti di esprimere le proprie opinioni in un solo attimo a un pubblico molto vasto.

Al di là dei pregi e difetti di tale possibilità, sui quali i pro social network e gli anti social network si danno battaglia, non bisogna dimenticare una sua conseguenza di non poco conto e sulla quale non c'è molto da discutere: un utilizzo non consono dello strumento aumenta il rischio di commettere reato di diffamazione.

E non ci vuole poi così tanto per sconfinare nell'illecito, come la giurisprudenza degli ultimi anni ha avuto modo di decretare.

Molto interessante, in tal senso, è la sentenza numero 13604 del 24 marzo 2014, con la quale la Corte di cassazione ha sancito che anche una semplice allusione può integrare reato. Ovviamente, il soggetto colpito dalla diffamazione deve essere facilmente individuabile: se ciò avviene, affinché scatti una condanna penale non importa che nome e cognome vengano omessi.

Se, insomma, si sente la necessità di sfogarsi pubblicamente tentando di fare i furbi e dissimulando il nome del destinatario delle invettive con allusioni comunque idonee a identificarlo, non si deve affatto credere di essere salvi: la giurisprudenza nel tempo ha parlato chiaro e dal rischio di essere condannati per diffamazione non si scappa.

Peraltro, come ricordato anche recentemente dalla quinta sezione penale della Cassazione nella sentenza numero 8328 del 1° marzo 2016, diffondere un messaggio diffamatorio attraverso l'utilizzo di un social network rappresenta un'ipotesi di reato aggravata ai sensi del comma terzo dell'articolo 595 del codice penale: la diffusione del messaggio, infatti, ha in tal caso la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone in tempi assai ravvicinati.

Ecco quindi che pubblicare e diffondere sui social network contenuti che offendono anche velatamente l'altrui onore, l'altrui reputazione e l'altrui decoro genera un'indubbia e rilevante responsabilità da fatto illecito, che comporta anche l'obbligo di risarcire il conseguente danno morale.

Oltretutto neanche eliminare tempestivamente il post "incriminato" rendendosi conto delle conseguenze che ne possono derivare può sempre essere un valido rimedio: chi si senta offeso e voglia ottenere giustizia può comunque essere aiutato dai testimoni che hanno letto l'invettiva o dai moderni strumenti tecnologici idonei a ricostruire la vicenda.

Valeria Zeppilli

Foto: 123rf.com
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