Con la sentenza n.1881 del 2010, la Prima sezione civile della Corte di Cassazione, in merito ai criteri di determinazione dell'equo indennizzo, ha stabilito che il giudice nazionale deve rifarsi a quanto prescrive l'art.2, comma 3, lettera a) della cd. "Legge Pinto" (l.89/2001): il giudice dovrà pertanto calcolare l'indennizzo in base al periodo di ritardo, invece che commisurandolo all'intera durata del giudizio, come prescrive la CEDU. La sentenza
dei giudici di legittimità è l'esito del ricorso proposto da una cittadina italiana che aveva adito al Corte d'Appello di Roma per la richiesta di equo indennizzo per durata irragionevole di un procedimento: con decreto, i giudici di merito accordavano la richiesta d'indennizzo in una cifra di mille euro corrispondenti agli otto mesi di ritardo del procedimento e non a tutti gli anni di durata dello stesso. In seguito al ricorso proposto dalla cittadina italiana, la Corte di cassazione, dopo aver stabilito che il calcolo dell'indennizzo si deve basare sul periodo di ritardo del giudizio, ha poi precisato che "detta diversità di calcolo, peraltro, non tocca la complessiva attitudine della citata legge n.89 del 2001 ad assicurare l'obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, e, dunque, non autorizza dubbi sulla compatibilità di tale norma con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica italiana mediante la ratifica della Convenzione europea e con il pieno riconoscimento, anche a livello costituzionale, del canone di cui all'art.6, paragrafo 1, della convenzione medesima (art.111, secondo comma, Cost., nel testo fissato dalla legge costituzionale 23 novembre 1998, n.2) (Cass. 13 aprile 2006 n. 8714; 23 aprile 2005 n. 8568)".

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