Da mesi si discute, giustamente, del pericolo ambientale legato alle emissioni di diossina dell'Ilva di Taranto. Di cui ci sono purtroppo molti "riscontri" umani: bambini e adulti che combattono contro tumori ed altre gravi patologie, e molti che invece non ce l'hanno fatta.

Da troppo tempo però non si parla più del problema diossina che ha vissuto, e tuttora vive, la città di Brescia. Non si trattò di un incidente inaspettato, come l'esplosione del 1976 che a Seveso riversò nell'aria diossina in gran quantità, provocando un disastro ambientale "visibile" a tutta Italia (grazie proprio ai media). Così grave da far emanare addirittura una legge speciale che consentisse l'aborto terapeutico (la diossina è altamente teratogena, cioè può provocare malformazioni al feto), quando questa pratica medica era ancora vietata; con tanto di benedizione di un cattolicissimo come Giulio Andreotti. Si tratta invece di un disastro ambientale che si sta consumando lentamente, da quasi un secolo per l'esattezza.

Nel 2001 una grande industria chimica bresciana, la Caffaro S.p.a. finì nel mirino di un'inchiesta grazie a La Repubblica, e soprattutto grazie alle denunce fatte da un ambientalista, il professore di italiano ed ex-segretario dell'Assessorato al Lavoro di Brescia, Marino Ruzzanenti, che mise sotto accusa l'azienda a partire dagli anni '80.

La Caffaro era (ed è tuttora) una sorta di istituzione intoccabile a Brescia. Fondata nel 1907 è stata attiva a pieno regime sino al 1984, dopo di che ha ridotto la sua produzione di quasi due terzi. Di inquinamento però non ha mai smesso di produrne, diventando anche l'anima alle spalle dell'inceneritore cittadino, Asm, creato nel 1994. Uno dei più grandi d'Europa, nonchè una mega fabbrica di polveri sottili altamente inquinanti. Inizialmente per mettere a tacere l'opinione pubblica che non gradiva questo colosso della "ruffa" (pattumiera, ndr), venivano regolarmente compiuti esami per rilevare la qualità del suolo e dell'aria. Dopo i primi monitoraggi annuali, tutto d'un tratto, come denuncia Ruzzanenti, i campioni di terreno cessarono di essere presi e le analisi di essere fatte. Chissà come mai proprio in concomitanza della legge Ronchi, che imponeva il limite massimo di diossina tollerabile a 0,001 milligrammo per chilo di terreno, molto sotto la soglia di quello che c'era nel bresciano. Il tutto oltre che per giustificare la presenza dell'inceneritore, forse (ma anche senza forse) per agevolare un po' di imprenditoria edile.

Grazie alla Caffaro e all'inceneritore il sottosuolo bresciano è inquinatissimo, molto più di quello di Taranto. I quantitativi di diossina e Pcb (policlorofenili, di cui Caffaro era la sola produttrice in Italia dal 1932) rilevati sono molto più alti che a Taranto. La diossina nel terreno sotto l'azienda bresciana è pari a 325.000 nanogrammi per kg di terra, contro i 351 di quello sotto l'Ilva. Anche le aree circostanti i due siti hanno una differenza di concentrazione di inquinanti molto significativa: 10 nanogrammi nel quartiere di Statti a Taranto (il più colpito dall'inquinamento
dell'Ilva) e 3.000 nanogrammi nell'area (di ben duecento ettari) tra Brescia e Milano. La prova degli alti livelli di inquinamento del terreno, e dell'aria, sono da anni offerte dalle analisi del latte vaccino, dei prodotti orto-frutticoli, e naturalmente del sangue degli abitanti della zona. Oltre che dalla maggior incidenza di neoplasie. La diossina trovata nel sangue è di dieci volte superiore a quello degli abitanti di Taranto. Anche in alcuni comuni (così come nel quartiere di Statti a Taranto) vicino alla Caffaro, sono state emanate ordinanze comunali che proibiscono di coltivare orti e allevare bestiame, e soprattutto ai bambini di giocare nei parchi.

Ora di fronte ad una situazione così drammatica come è mai possibile che lo Stato si sia dimenticato dei bresciani? Per bonificare l'area di Taranto sono stati messi a disposizione circa 340 milioni di euro, mentre per il bresciano la cifra che venne pattuita e reputata equa per la bonifica scende a poco più di 6 milioni (da una richiesta iniziale di 8 milioni, non molto di più dunque). Oltretutto i soldi per Brescia sono ancora in attesa di essere erogati.

È più che lecito domandarsi come mai questa differenza di "peso" economico delle opere. Le risposte potrebbero essere molteplici. Una, più buonista, potrebbe suggerirci che al momento della richiesta fatta per il caso Caffaro, i costi di bonifica fossero stati calcolati in maniera errata. E, se così fosse, potrebbe trattarsi di totale buona fede da parte delle autorità. Una seconda ipotesi, dettata da un certo cinismo, o assuefazione, nel vedere come funzionano generalmente le cose nella res publica, potrebbe invece essere che nel caso dell'Ilva sia più facile "mangiarci su", quindi valeva maggiormente la pena di gonfiare il conto.

Tanto poi lo paghiamo noi!
Barbara LG Sordi
Email barbaralgsordi@gmail.it

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