Riscoprire attraverso il "comune sentire" ciò che i cittadini si attendono dal sistema giustizia: una maggiore "umanità"

di Roberto Cataldi - Hans Kelsen, nel noto saggio L'anima e il diritto, ci fa notare come lo spirito umano abbia assunto due diversi atteggiamenti nei confronti del mondo che lo circonda: quello tipicamente razionalistico e quello più strettamente legato alla sfera delle emozioni.

Se da un lato prevale l'idea di una natura regolata dalla legge della causalità, dall'altro è la "tendenza emozionale" a forgiare le regole della società, in considerazione di ciò che il collettivo considera utile e desiderabile.

Dopo una millenaria e animata diatriba, che ha contribuito a mantenere disgiunti i due risvolti della medaglia, ancora oggi, in determinati campi del sapere, essi non possono dirsi complementari: il sapere di formazione razionalistica continua a vantare, in termini di affidabilità, una posizione di assoluta supremazia. Per quanto attiene al mondo giudiziario, in particolare, sembra che la prevalenza dell'atteggiamento razionalistico abbia fatto dimenticare completamente l'aspetto emozionale. Una conformazione unidirezionale del diritto ha finito per confondere il concetto di giustizia con quello di legalità, assumendo la legge come unico criterio di distinzione tra quel che è giusto e quello che non lo è.

In realtà l'idea di giustizia preesiste a ogni norma di diritto positivo, poiché ha a che fare soprattutto con un vissuto interiore, con un "sentire" piuttosto che con un "sapere"; e in questa prospettiva l'uomo di legge ha il compito di decifrare e interpretare ciò che in primo luogo nasce come coscienza. Proprio attraverso questa "lettura" è possibile individuare e tradurre in norma i valori condivisi da una determinata società.

Ma non tutto è così semplice. I modelli di interazione tra gli individui non sono "dati" una volta per sempre, come si vorrebbe far credere dinanzi alla sacralità della norma, bensì necessitano di un adattamento progressivo e parallelo alle esigenze di una società in continua trasformazione.

Il recupero della sfera emozionale diventa allora essenziale, se non si vuole che il diritto si cristallizzi in un arido dogmatismo razionalistico, terribilmente distante dalle esigenze dei cittadini.

Un giurista, prima che uno studioso del diritto, dovrebbe essere un amante della vita e della sua complessità; dovrebbe essere un uomo che è sempre alle prese con quell'affascinante avventura dell'esistere.

Imparare a immergersi nel particolare e saper cogliere l'infinita complessità del mondo e della vita, con le sue innumerevoli sfumature, prima di dedicarsi all'universalità della norma, dovrebbe essere l'imperativo categorico del legislatore. Quell'aura di sacralità che voleva il diritto come espressione terrena di una volontà divina, nata e sostanziata da un ragionamento di tipo deduttivo, non può più reggere in un'epoca contrassegnata da una sempre crescente laicizzazione. Oggi, la fonte del diritto è l'essere umano - non più il suo dio - con le sue esigenze e le sue ragioni. Ciò richiede necessariamente il passaggio a una forma di conoscenza induttiva, che dal particolare si astrae nell'assoluto, assumendo come priorità interpretativa l'universo del singolo essere umano.

L'impegno è sicuramente gravoso, giacché occorre scendere in profondità, calarsi nei "sotterranei dell'anima", dove è possibile esplorare le regioni più nascoste della coscienza umana ed entrare in contatto con quella concrezione magmatica di vissuti e di sensazioni che a volte solo un artista riesce a esprimere.

All'arida complessità delle leggi dovremmo quindi sovrapporre quella eterogenea e intrigante dei fatti e dei sentimenti umani, imparando a conoscere e riconoscere quell'insieme di valori, di idee, di modelli, di sentimenti che appartengono alla nostra società.

Tuttavia, avendo manifestato fino ad oggi il diritto la sua estraneità a questo tipo di sfumature, se si vuole entrare in contatto con la sfera dei sentimenti, occorre avere il coraggio di aprirsi all'alternativa data da altri campi esperenziali, come la musica, la letteratura, la danza e, più in generale, tutte le forme di espressione artistica.

Oggi ai generi "classici" dell'arte si è affiancata una nuova musa, che ha trovato la sua forza nella straordinaria capacità di veicolare valori attraverso l'immagine in movimento: il cinema. Esso è in grado di farci entrare in contatto con quella che Kelsen ha chiamato "anima", con una immediatezza che è intrinseca al suo potere evocatorio e visionario.

I fratelli Lumière non potevano di certo immaginare che la prima proiezione, di quello che altro non sembrava se non una riproduzione meccanica di scene "dal vero", potesse provocare un tale "sussulto" nella platea.

Eppure quel primo vagito segnò l'inizio di ciò che oggi è diventata una vera e propria industria culturale, capace non solo di interpretare, ma anche di formare l'immaginario collettivo.

Il cinema non è soltanto tecnica, spettacolo e divertimento ma, come afferma Barthes, un vero e proprio "festival delle emozioni". Il suo legame profondo con il contesto sociale in cui nasce lo rende il mezzo principale di interpretazione di quei modelli morali destinati in qualche modo a diventare norma.

Per tutto il tempo che trascorriamo nel buio di una sala cinematografica possiamo avvertire l'esistenza di un insieme di "valori condivisi", che portano la platea a schierarsi dalla parte di ciò che all'unisono si percepisce come "giusto" o "buono", non tanto su basi razionali, quanto sul piano prettamente identificatorio. Così sul versante emozionale, di cui parla Kelsen, si riesce a trovare una formidabile intesa.

Se è vero, come afferma Antonio Costa, che il cinema riflette la società ed è, anzi, da essa stessa plasmato, dobbiamo altresì riconoscere che un film può contribuire a formare nuovi valori e a metterne altri in discussione. E' come se esistesse un rapporto di reciprocità tra il film e i suoi spettatori: uno scambio consenziente, anche se non sempre lucidamente consapevole, di valori e di idee.

Un frammento di vita, una lite, un addio ci coinvolgono in prima persona, attraverso quei meccanismi identificatori che l'immagine, nella sua evidenza sostanziale, alimenta e rafforza. Il cinema, insomma, "folgora" la nostra mente e riesce a farlo con l'immediata semplicità di una fugace visione o di un movimento di macchina.

Indubbiamente non è facile sottrarsi a questa straordinaria "magia", che sa elaborare prodotti di un dato momento storico e, allo stesso tempo, veicolare messaggi o provocazioni che alimentano nuovi modelli di comportamento contrari a ogni dogmatizzazione.

La storia stessa del cinema può insegnarci molto. Dalla precocissima consapevolezza tecnico stilistica di Georges Méliès, grande "antagonista" delle pellicole documentaristiche dei Lumiére, ai film "neorealisti" in pieno regime fascista, alla "Nouvelle Vague" francese che, contestando il "cinèma de papa", era in realtà alla ricerca di nuovi modelli di stampo fenomenologico, tutto indica la necessità di un continuo adattamento.

Al cinema è stato assegnato il ruolo di detonatore, in grado di far esplodere esigenze e aspirazioni sociali che già esistevano e che per molto tempo erano rimaste nell'ombra.

Georges Méliès, ad esempio, è stato il creatore di scenografie fantastiche e surreali, apparentemente estranee alla realtà sociale dei suoi tempi, eppure un autorevole critico e studioso della storia del cinema, Adelio Ferrero, ha scritto - a proposito di "Voyage dans la lune" e "Au royaume de neptune" - che in questi due film il fantastico riflette le distorsioni del costume, la falsa solennità e il razzismo della piccola borghesia.

Già dalla sua preistoria, il cinema ci ha mostrato la straordinaria capacità delle immagini di rappresentare e di alludere al "non detto", una capacità che non dobbiamo mai perdere di vista.

Per formare un diritto al passo con i tempi, infatti, occorre andare oltre le apparenze e i pregiudizi e saper cogliere le esigenze più vere, anche se non dichiarate, della nostra società.

Ed eccoci al punto della questione. Per recuperare la coscienza come fonte di giustizia, dovremmo ogni tanto abbandonare i polverosi volumi di diritto e le disquisizioni accademiche, per lasciarci andare alle emozioni che può trasmetterci anche una bella pellicola.

Possiamo abbandonarci a questo piacere senza per questo dover rintracciare ad ogni costo un genere "giudiziario", che tra l'altro non è contemplato tra quelli classici hollywoodiani. E' possibile godersi tranquillamente la visione di un western o di un melodramma, come pure di un poliziesco o di un film di fantascienza, giacché all'interno di ogni film sono sempre rintracciabili quei valori e quei modelli sociali a cui fare riferimento nel processo di formazione del diritto.

Per lungo tempo, ad esempio, i western hanno proposto un'idea di giustizia legata alla vendetta e alla brutalità. Ciò che contava era la legge sommaria del fucile, espressa attraverso la lotta tra il fuori legge e lo sceriffo, tra il bandito e il giustiziere, oppure tra il cow boy e l'indiano.

Nel tempo abbiamo assistito a una radicale trasformazione, per cui film come "Balla coi lupi" hanno posto l'accento su nuove tematiche e persino l'immagine dell'indiano, da sempre dipinto come il cattivo o l'aggressore, è stata restituita a una parziale verità storica.

Abbiamo detto che non esiste un vero genere "giudiziario", ossia dotato di canoni, tipi, situazioni e intrecci ricorrenti, ma dobbiamo prendere atto che, soprattutto nel cinema americano, ha avuto ampia diffusione un filone ormai decennale, desunto dalla televisione, il cui glorioso archetipo è "Perry Mason". Questo filone s'intreccia con generi come la "spy story", il "thriller", il dramma politico o di costume, come "Philadelphia" di Jonathan Demme (1993), o il melodramma, come "Kramer contro Kramer" di Robert Benton (1980). Esistono poi pellicole quasi interamente girate nelle aule di un tribunale, come il felice connubio tra i romanzi di John Grisham e il recente filone "legal-thriller" del cinema americano. Da "Il cliente" a "Il socio", passando per "Rapporto Pelikan" e "L'uomo della pioggia", Grisham non fa che mettere in luce i limiti di una giustizia fondata sull'astuzia e sulla supremazia del più furbo.

In Italia, invece, il plot giuridico è inevitabilmente politicizzato; ricordiamo, ad esempio, "Porte aperte" di Gianni Amelio (1990), "Pasolini un delitto italiano" di Marco Tullio Giordana (1995) e "La scorta" di Ricky Tognazzi (1993).

Ma ciò che va sottolineato è l'estrema efficacia di questi film, quando si cimentano direttamente con i temi specifici del diritto, amalgamandosi con altri generi e filoni come quello sentimentale e politico.

Ne sono un esempio tre famose pellicole: "La parola ai giurati" di Sidney Lumet (1957), "Dead man walking" con la regia di Tim Robbins (1998) - che hanno affrontato uno dei "nodi" etico-politici maggiormente sentito negli Stati Uniti - e "Nel nome del padre" di Jim Sheridan (1993), che racconta la storia vera di quattro ragazzi irlandesi, ingiustamente accusati di un attentato terroristico, che scontano oltre quindici anni di carcere perché la polizia, per placare l'opinione pubblica, aveva bisogno di colpevoli e occulta le prove che li avrebbero scagionati.

La contemporanea presenza della denuncia etico-politica e dell'elemento sentimentale ed emotivo ne fanno gli esempi più paradigmatici di quello che è il connubio cinema-diritto: una drammatizzazione di temi, che conferisce una caratterizzazione "tragica" al cinema di argomento giudiziario. In sostanza si toccano gli eterni interrogativi dell'uomo come "animale sociale": la relatività delle norme sociali e politiche, la legge come qualcosa di distante e indifferente alle esigenze umane.

Il forte afflato emotivo di queste pellicole costituisce una chiara denuncia, che va adeguatamente considerata soprattutto da chi deve porsi il problema del fondamento e della ragione delle norme che regolano il vivere sociale.

Il cinema entra nei nostri comportamenti, nella nostra vita quotidiana, e tocca le corde più profonde dei nostri sentimenti. Per questo la sequenza di un film può essere più efficace di tante parole.

Ogni film può diventare un segnale che non dobbiamo sottovalutare, soprattutto se vogliamo che il diritto e la legge non vengano avvertiti come oppressivi, da chi ha la sventura di trovarsi coinvolto in un procedimento giudiziario.

Dobbiamo ritagliarci un nuovo "abito mentale", che può servirci non solo a comprendere meglio le ragioni umane ed esistenziali del diritto, ma anche ad abbandonare quelli che per troppo tempo abbiamo ritenuto principi indiscutibili, per aprirci al confronto con il sociale, con l'esperienza umana, con la complessità della vita. In una parola: con l'anima.

Spesso nei film il giudice, la giuria, il difensore, la pubblica accusa ripropongono ruoli che si alternano nella contrapposizione tra il bene e il male, il giusto e l'ingiusto.

In ogni caso lo spettatore è sempre "catturato" e il dubbio virtualmente proposto sul set è già sciolto, prima ancora del verdetto finale, nel "sentire" della platea, che è inevitabilmente schierata dalla parte di ciò che affettivamente si mostra come ideale di suprema giustizia.

Proprio ascoltando questi messaggi, dovremmo capire che dalla giustizia ci si attende innanzitutto una maggiore umanità, e che dal magistrato si vuole più attenzione alle esigenze umane piuttosto che alle teorie.

Questo "comune sentire" può diventare la chiave di lettura dei tanti mali di un sistema legale che non ci piace più, perché non soddisfa le richieste di una società sempre più esigente in materia di giustizia.

Dobbiamo allora ristabilire un contatto tra ciò che ci viene proposto come diritto e ciò che esso "dovrebbe essere".

Frequentare un po' di più le sale cinematografiche potrebbe aiutarci ad allargare i nostri orizzonti, attraverso i vissuti appartenenti alla quotidianità dell'uomo comune.


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