Quando il reato è estinto, ma l'algoritmo continua a condannare. Una riflessione giuridica ed emotiva sulla memoria digitale

Era il 2008. Un uomo, allora ventisettenne, fu denunciato per una vicenda poi archiviata. Nessuna condanna, nessun processo. Oggi, a 44 anni, viene escluso da un concorso pubblico. Perché? Perché digitando il suo nome su Google, tra i primi risultati compare ancora una vecchia notizia. Il diritto ha dimenticato. L'algoritmo no.

Viviamo nell'epoca della memoria indelebile, dove nulla muore davvero. Dove anche l'assoluzione, l'archiviazione o l'estinzione di un reato non bastano a restituire alla persona quella forma di innocenza sociale che, un tempo, la giustizia era in grado di garantire.

Il paradosso della giustizia digitale

Il diritto all'oblio, sancito dall'art. 17 del GDPR, nasce come risposta a un mondo in cui ogni traccia lascia un'impronta, ogni errore un'eco. Ma oggi, le tracce sono replicabili, archiviate, indicizzate, vendute, trasformate in profili, punteggi, blacklist invisibili.

La giustizia digitale crea un nuovo tipo di pena: l'ergastolo reputazionale. Il passato, anche quando estinto, viene riesumato da una riga di codice, da un crawler, da un sistema di indicizzazione che non ha né volto né coscienza. Il web non dimentica, e questo ha conseguenze profonde su libertà, diritti, possibilità lavorative e relazioni personali.

Limiti della normativa e confini della notiziabilità

La normativa attuale prevede la possibilità di chiedere la rimozione dei dati personali non più attuali, ma il confine tra interesse pubblico e diritto alla riservatezza resta ambiguo. La Corte di Giustizia dell'UE ha tracciato un principio: se la notizia non è più attuale e non ha rilievo pubblico, va deindicizzata. Ma ogni caso è un caso a sé.

La giurisprudenza italiana oscilla tra tutela della reputazione e diritto di cronaca. Ma mentre il giudice pondera, l'algoritmo agisce, automaticamente, senza pietà, senza discernimento.

L'intelligenza artificiale e la condanna che non scade mai

Con l'ascesa dell'IA, la memoria digitale si è fatta ancora più pervasiva. I nuovi modelli linguistici, gli strumenti predittivi, i sistemi di profilazione automatica possono accedere a dati remoti, frammentari, parziali. Possono aggregare profili sulla base di articoli di cronaca vecchi di decenni. Possono perfino precludere opportunità prima ancora che un essere umano legga davvero il curriculum.

Come scriveva Aldo Carotenuto, "siamo prigionieri non tanto del passato, quanto dell'idea che il passato sia immutabile." Oggi è l'algoritmo, non il giudice, a dettare i confini della colpa. Ma se l'identità di una persona è in divenire, il diritto deve trovare forme nuove per riconoscerla e proteggerla.

Verso un nuovo diritto: non solo oblio, ma trasformazione

Il diritto all'oblio non basta. Serve un diritto alla trasformazione, che non cancelli il passato, ma lo rilegga alla luce del presente. Che permetta al cittadino di dire: "quella persona non sono più io."

Servono strumenti di mediazione algoritmica, forme di giustizia riparativa digitale, e soprattutto un'educazione giuridica ed emotiva che riconosca la complessità dell'essere umano. Perché l'informazione è libertà, ma la libertà è anche il diritto a non essere per sempre ciò che si è stati.

Forse è questo il senso più profondo del diritto: dare una seconda possibilità. E oggi più che mai, quella possibilità passa per la dignità di essere dimenticati, ma soprattutto di essere visti per ciò che siamo ora.


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