Caso Ilva, il nostro Paese condannato dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo per non aver protetto i cittadini che vivono nelle aree toccate dalle emissioni tossiche emesse dall'impianto di Taranto

di Gabriella Lax - Sul caso Ilva arriva una condanna per l'Italia ritenuta responsabile di non aver protetto i cittadini che vivono nelle aree toccate dalle emissioni tossiche emesse dall'impianto di Taranto.

Caso Ilva, Cedu condanna Italia: i motivi della sentenza

La decisione è stata presa dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo con una sentenza che mette in risalto da parte del nostro paese la violazione dell'articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dell'articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo) della Convenzione. Il caso ha avuto origine dalla denuncia di 180 richiedenti che hanno lamentato effetti delle emissioni tossiche delle acciaierie di Ilva a Taranto sull'ambiente e sulla loro salute e l'inefficacia dei rimedi adottati. Il ricorso al Cedu contro lo Stato italiano è curato Studio legale internazionale 'Saccucci & Partners'. Dopo quattro anni, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato il nostro Paese «per aver violato gli obblighi di protezione della vita e della salute, per aver violato il diritto al rispetto della vita privata e familiare». Secondo la Corte «la persistenza di una situazione di inquinamento

ambientale mette in pericolo la salute dei richiedenti e, più in generale, quella dell'intera popolazione che vive nelle aree a rischio». Nella sua decisione, la Cedu ribadisce che «le autorità nazionali non hanno adottato tutte le misure necessarie per garantire una protezione efficace del diritto dei richiedenti al rispetto della loro vita privata» ed inoltre che «le misure per assicurare la protezione della salute e dell'ambiente devono essere messe in atto il più rapidamente possibile». Infine, l'organo europeo non ha riconosciuto alcun risarcimento morale ai ricorrenti sostenendo che la condanna dell'Italia «è una riparazione sufficiente». E non è entrata nel merito della violazione al diritto alla vita come richiesto dai ricorrenti.

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