Analisi dei nuovi rapporti fra diritto penale e diritto sportivo in tema di vincolo di giustizia e clausola compromissoria. Legittimità d'azione nel rispetto di entrambe le discipline
Avv. Filippo Pirisi - Buona fede ed errore scusabile possono essere, anche nel diritto sportivo, motivi di assoluzione in tema di contestazione della violazione del vincolo di giustizia. E' quanto sancito recentemente (C.U. 131 - Decisione della Corte Federale di Appello F.I.G.C., 21.6.2018) a conferma di un ordinamento federale sempre più aperto al richiamo dei principi del diritto ordinario e, soprattutto, penale.

Diritto sportivo e vincolo di giustizia

E' questo uno degli aspetti di più recente elaborazione e di maggiore interesse dell'intero diritto sportivo, poiché, infatti, il vincolo di giustizia (principio secondo cui i soggetti federali debbano risolvere le controversie fra loro insorte all'interno dell'ordinamento sportivo o, se intendano adire la giustizia ordinaria, lo possano fare solo dopo aver ricevuto una formale autorizzazione) è uno dei pilastri portanti dell'ordinamento settoriale che trova riconoscimento nella lettura congiunta dell'art. 30, comma 2, dello Statuto Federale e dell'art. 15 del Codice di Giustizia Sportiva.
E' lo stesso Codice di Giustizia Sportiva che, non prevedendo esplicitamente la materia penale, in tema di vincolo apre ad interpretazioni che, negli anni, hanno portato a decisioni spesso draconiane a causa del conflitto fra la pretesa autonomia dell'ordinamento sportivo ed i diritti dei tesserati vittime di reato. Il tutto poiché le Federazioni sono prive, al loro interno, di strumenti alternativi ma funzionalmente omogenei a quelli propri della giurisdizione statale; in altre parole, se e quando la giustizia sportiva non è concretamente in grado di garantire adeguata tutela deve privilegiarsi il diritto dei tesserati di adire il Giudice ordinario senza preventive autorizzazioni (con rischi sulle tempistiche e sulle strategie processuali) e senza il pericolo di incorrere in sanzioni disciplinari.

Conflitto tra giurisdizione ordinaria e federale

Si tratta della vexata quaestio sul conflitto fra giurisdizione ordinaria e federale, che ha registrato numerose interpretazioni dell'art 2 della L. 280/2003 secondo cui l'ordinamento sportivo, dotato di autonomia giurisdizionale, fa ricondurre il proprio diritto al rispetto del vincolo di giustizia non in forza di norme endofederali ma di disposizioni di legge ordinaria; il tutto con la riflessione che, se ciò da un lato comporta un riconoscimento normativo più autorevole, da un altro comporta la conseguenza che, quando tale disposizione va a collidere con i limiti della medesima disciplina ordinaria sancita a più alti livelli gerarchici, sarà comunque destinato a soccombere.

Per queste ragioni, infatti, si sta assistendo ad una sempre maggiore elaborazione giurisprudenziale tesa al ridimensionamento del vincolo in favore della liberalizzazione delle iniziative penali dei tesserati (Corte Federale F.I.G.C. su C.U. n. 5/CF del 23.04.1996, Lodo Arbitrale 16.3.2009 (Setten c/ FIGC), Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport 4.10.2010 (Guerra c/ FIGC), T.N.A.S con i Lodi 21.7.2010 e 31.3.2011).
Forte di tale introduzione sistematica, recentemente (C.U. 131/CFA del 21.6.2018) la Corte Federale di Appello della F.I.G.C. ha deciso un caso molto particolare e "di confine": si è espressa cassando l'appello -a seguito di proscioglimento in primo grado del Tribunale Federale Territoriale Sardegna- del Procuratore Federale avverso un tesserato che avrebbe violato il vincolo di giustizia avendo sporto querela senza la preventiva autorizzazione, sebbene egli l'avesse, invece, richiesta ma ad un Ufficio non competente.
A conferma del sempre più recente fenomeno d'interposizione fra la normativa federale e quella ordinaria, le tesi accusatorie vertevano sulla circostanza che si fosse trattato di un errore -sul precetto- che, come tale, dovesse comportare una condanna. Le tesi difensive, invece, da un alto rilevavano il valore dell'elemento psicologico della buona fede del tesserato e, dall'altro, ritenevano doversi applicare la disciplina dell'errore -sul fatto- dal momento che il tesserato aveva dimostrato di conoscere il precetto e, in buona fede, di volerlo rispettare, salvo errare nella sola individuazione dell'ufficio a cui richiedere l'autorizzazione a procedere.

La buona fede e l'errore nella giustizia sportiva

Sposando le tesi difensive, la Corte ha evidenziato il rilievo scusante della buona fede nella condotta del tesserato nonché, approfondendo l'aspetto relativo all'errore, nel caso di specie lo ha ritenuto tale da rendere il comportamento non punibile poiché, tecnicamente, non colpevole.
Così sancendo, la Corte -confermando l'orientamento della Corte di Giustizia Federale in C.U. 56/CGF dell'11.12.2007- ha ribadito il rilievo della buona fede quale indice di giudizio della condotta del tesserato, precisando che può ritenersi dotata di quell'efficacia scusante conseguente alla mancanza di coscienza e volontà della condotta illecita. La stessa Corte ha infatti ritenuto che perché l'art. 15 C.G.S. possa dirsi violato è necessaria l'assoluta certezza della volontà di eludere il dovere di richiedere l'autorizzazione a procedere per le vie ordinarie: in altre parole, per esserci violazione, è necessario l'accertamento del dolo specifico.
Nella decisione in argomento, la Corte, oltre alla precisazione sul valore della buona fede, ha approfondito un nuovo e significativo aspetto relativo all'errore sul precetto ed all'errore sul fatto. Così facendo, dimostrando il continuo richiamo a principi normativi non prettamente propri della materia federale, ha acquisito rilievo il fatto che, trattandosi di illecito per la cui configurazione è necessario il dolo specifico, se da un lato l'ignoranza del precetto non sarebbe stata scusata, dall'altro deve comunque ritenersi che l'errore sul fatto debba in ogni caso escludere la rimproverabilità.
Infatti, nonostante la Procura Federale avesse sostenuto che il comportamento del tesserato -reo di aver errato nell'individuare il destinatario della richiesta autorizzativa- fosse riconducibile alla disciplina dell'art. 5 c.p., la Corte, sposando le tesi difensive che avevano richiamato anche Cassazione SS.UU. 15885/2007 in tema di coscienza dell'antigiuridicità di una condotta, ha invece assolto il tesserato. Si è infatti ritenuto che non potesse dirsi sussistente la sua inequivocabile volontà di eludere l'ordinamento federale, essendosi riconosciuto che egli conosceva il precetto ed agiva con l'intento di rispettarlo benché avesse errato nel solo individuare il destinatario della richiesta autorizzativa.
A sostegno di ciò, in ossequio al principio della responsabilità personale e non oggettiva (come anche sancito dagli artt. 6 e 7 CEDU), nonché alla disciplina sia dell'art. 47 c.p. (secondo cui l'errore sul fatto che costituisce l'illecito esclude la punibilità dell'agente) che di quella, estensiva, dell'art. 47, comma 3, c.p., acquista rilievo decisivo il fatto che, in sede d'interpretazione di una condotta che possa astrattamente configurare sia un errore sul precetto sia un errore sul fatto, l'accertamento della buona fede deve rappresentare l'elemento di discrimine fra il primo errore - che comporterebbe la condanna - ed il secondo errore -che comporterebbe, invece, l'assoluzione.


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