Nozione ed evoluzione della malattia mentale nella psichiatria e nella giurisprudenza

Dott. Giuseppe Carpino - La disciplina dell'imputabilità apre il titolo IV del Codice Penale, dedicato al reo e alla persona offesa dal reato. L'art. 85 stabilisce che: "Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile", e specifica al comma successivo che: "E' imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere".

Si considera l'intendere come l'attitudine del soggetto non solo a conoscere la realtà esterna, ciò che si svolge al di fuori di lui, ma a rendersi conto del valore sociale, positivo o negativo, di tali accadimenti e degli atti che egli compie1.

E' bene sottolineare che la capacità di intendere nulla ha a che vedere con la capacità di apprezzamento morale, talchè colui il quale comprenda che un fatto è illecito ma non sappia partecipare affettivamente e moralmente alla proibizione -come potrebbe essere il caso di personalità "disaffettive" o "amorali"- non perciò vedrà diminuita la propria imputabilità.

Il volere si definisce come il potere di controllare gli impulsi ad agire e determinarsi secondo il motivo che appare più ragionevole in base ad una concezione di valore2 .

Affinché un soggetto possa essere definito imputabile è necessaria la sussistenza di entrambi gli elementi, i quali si pongono in un rapporto di progressività, per cui, mentre può esserci capacità di intendere senza volere, non è vero anche il contrario 3.

Le capacità di intendere e di volere possono essere messe a repentaglio da una condizione di infermità. Il principio, contenuto negli artt. 88 e 89 del codice penale, è in tal senso inequivocabile: "Art. 88. Vizio totale di mente. - Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere"; "Art. 89. Vizio parziale di mente. - Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita".

Le disposizioni ruotano attorno al concetto di infermità; il termine, però, rimane privo di qualsiasi specificazione da parte del legislatore circa il reale significato da attribuirvi. È questo il principale nodo da sciogliere se si vuole conferire alla norma una reale valenza pratica, infatti, preliminare alla valutazione del grado di incidenza della malattia mentale sulla capacità di intendere e di volere del soggetto agente è l'individuazione dei disturbi potenzialmente idonei ad esplicare l'incidenza medesima4

I problemi interpretativi nascono, in realtà, prima ancora che sul piano normativo del giudizio, in relazione al significato da attribuire all' infermità di cui all' articolo 88 c.p5. È proprio questo l'aspetto problematico della questione visto che non è, a tutt'oggi, possibile dare una definizione chiara e univoca del concetto di infermità penalmente rilevante.

Sotto la rubrica "vizio totale di mente" l'art. 88 dispone che "non è imputabile, chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere". Il concetto di infermità è di difficile definizione. Non basta accertare l'esistenza di una malattia mentale per escludere l'imputabilità: occorre appurare in concreto, caso per caso, se, e in quale misura, tale malattia abbia effettivamente compromesso la capacità di intendere e di volere del soggetto.

Compito del giudice sarà quello di distinguere i casi in cui l'infermità ha escluso la capacità di intendere e di volere, i casi in cui nonostante l'infermità la capacità di intendere e di volere è rimasta integra e i casi in cui l'infermità ha comportato solo una diminuzione dell'imputabilità. Il successivo art. 89 prevede poi "chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente senza escluderla, la capacità di intendere o di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita.

A differenza che nell' ipotesi del vizio totale di mente nel vizio parziale l'infermità non deve avere escluso la capacità di intendere o di volere: deve averla grandemente ridotta. Si deve sottolineare che non basta un'infermità che abbia diminuito la capacità intellettiva o volitiva dell'agente, ma è necessario che la diminuzione di quelle capacità sia molto seria: ai fini della diminizione di pena prevista per il seminfermo di mente, la legge richiede, infatti, che la capacità di intendere o di volere sia "grandemente scemata".

Il concetto classico della malattia mentale nella scienza psichiatrica

Il più antico paradigma psichiatrico della malattia mentale è quello cosiddetto biologico-organicista sviluppatosi già dalla fine del 17006. Questo affermava che poteva essere considerata infermità mentale solo un' alterazione organica o fisica del cervello clinicamente accertabile. Esso rappresenta il primo passo verso quello che possiamo definire processo di medicalizzazione della malattia mentale.

L'affermarsi del paradigma medico fu favorito dalla sua rispondenza alle caratteristiche socioculturali della comunità scientifica del tempo ed in particolare dalla concezione medico-positivistica, che spiegava ogni comportamento umano come un problema di fisiologia neuromuscolare e le malattie mentali come malattie del cervello. All' interno del paradigma in esame sono, individuabili vari orientamenti : il primo identifica le infermità mentali come vere e proprie malattie del cervello o del sistema nervoso, aventi, però, un substrato organico o biologico. Su questa scia si collocano numerose pronunce della Suprema Corte, e in particolare una secondo la quale «l'infermità deve dipendere sempre da una causa patologica tale da alterare i processi della intelligenza o della volontà […]. In tale nozione pertanto non possono comprendersi non solo tutte le anomalie della personalità o del carattere o del sentimento, ma anche le neuropsicosi o psiconevrosi che sono malattie del sistema nervoso e non hanno basi anatomiche […] vale a dire privi di substrato organico e senza lesioni di organi» 7

Il secondo orientamento, introdotto per la prima volta da Kraepelin, tende ad inquadrare il disturbo mentale, rilevante ai fini della esclusione o della limitazione della imputabilità, in un prestabilito schema classificatorio "nosografico". Tale impostazione, postula la configurazione di specifici modelli di infermità e della loro sintomatologia; propone, pertanto, il disturbo psichico come infermità "certa e documentabile" escludendosi ogni peculiarità, sotto tale profilo, rispetto ad altre manifestazioni patologiche. Conseguenza immediata e diretta è che un disturbo psichico può essere riconducibile a una malattia mentale soltanto qualora sia nosograficamente inquadrato.

Stando a questa interpretazione nel campo di applicazione degli articoli 88-89 rientrerebbero sicuramente le psicosi 8 , condizioni patologiche di origine organica. Per contro, rimarrebbero privi di influenza tutti quei disturbi psichici che la scienza psichiatrica non annovera fra le patologie conosciute, quali ad esempio le nevrosi, le psicopatie, le devianze sessuali ed i disturbi psicopatologici transitori9.

Il terzo e ultimo orientamento è quello introdotto dall'altrettanto celebre psichiatra Jaspers che, piuttosto che concentrarsi solo sulle mere categorie, pone l'accento sulla peculiarità del vissuto di ciascun paziente10. Oggetto d'indagine è, pertanto, la vita passata del soggetto al fine di rinvenire la presenza di un processo morboso, prescindendo dalla ascrivibilità dello stesso alla classificazione nosografica.

A partire dagli anni '60, il processo di oggettivizzazione dell'infermo di mente proposto dal paradigma medico si rivela inadeguato rispetto agli sviluppi del pensiero psichiatrico in cui l'interesse inizia a transitare dalla persona-corpo alla persona- psiche; si inizia, cioè, a comprendere che la rigida linea descrittiva del modello in questione imbriglia il giudizio di imputabilità a inflessibili etichette nosografiche che si mostrano incapaci di comprendere i motivi profondi dell'agire umano.

Il modello psicologico della malattia mentale

Una seconda nozione affermatasi intorno al novecento, sotto l'influenza dell'opera freudiana prese a proporsi in un diverso paradigma, quello psicologico, per il quale i disturbi mentali rappresentano disarmonie dell'apparato psichico. Questa seconda interpretazione ha attribuito massima valorizzazione ai fattori interpersonali, piuttosto che a quelli biologici. I disturbi mentali sono ricondotti a disarmonie dell'apparato psichico in cui le fantasie inconsce raggiungono un tale potere che la realtà psicologica diventa, per il soggetto, più significante della realtà esterna e quando questa realtà inconscia prevale sul mondo reale, si manifesta la malattia mentale. Secondo quest'ottica è fondamentale non mortificare la figura del malato, in quanto persona, con la riduttiva etichetta di imputabile o non imputabile, ma, una volta indagato a tutto tondo il disturbo di cui soffre, aiutarlo a prendere consapevolezza della sua condizione e del percorso terapeutico che lo attende per uscire da tale condizione11

I conflitti repressi dell'inconscio affondano le loro radici su una struttura della vita psichica suddivisa in più sfere, contraddistinta dalla dicotomia fra inconscio e coscienza, superata dallo stesso Freud, in un secondo momento, dalla tripartizione fra l'Es, l'Io e il super-Io.

L'Es è l'espressione psichica dei bisogni pulsionali che provengono dal corpo, è l'insieme caotico e turbolento delle pulsioni, la volontà di ottenere il piacere a ogni costo. L'Es è quindi governato dal principio di piacere, è inconscio, impersonale, privo di logicità, di pensiero astratto e di moralità. Con esso Freud indica la parte oscura, una sorgente organica di energie pulsionali non organizzate che fluiscono in una dimensione atemporale, operando al di fuori delle consuete categorie logiche e da qualsiasi nozione di valore o di bene, di male o di moralità.

L'Io è, al contrario, presieduto dal principio di realtà, la coscienza mediatrice che si trova tra l'incudine dell'Es e il martello del Super Io. L'Io è l'istanza preposta alla coscienza, è la parte più superficiale dell'apparato psichico e si costituisce come mediazione tra i bisogni pulsionali propri dell'Es e il mondo esterno. L'Io è quella parte dell'Es che è stata modificata dall' influsso e dalla vicinanza del mondo esterno e, oltre a mediare i conflitti tra Es e mondo esterno, deve tenere conto delle pressanti richieste del Super Io. Di fronte alle esigenze pulsionali l'Io mantiene un atteggiamento critico e decide quali debbano essere conseguite subito, rinviate o rimosse perché rischiose.

Il Super-Io, infine, è l'insieme dei divieti sociali percepiti dalla psiche come costrizione e impedimento alla soddisfazione del piacere, un sistema di censure che regola il passaggio dalle pulsioni dell'Es all' Io. Rappresenta ciò che può essere definita la coscienza morale, una sorta di censore morale che giudica gli atti e i desideri istintivi dell'uomo. Il Super-Io nasce nel bambino, inizialmente libero da qualsiasi principio morale, per effetto del potere condizionante dei genitori.

Secondo questa impostazione, la malattia mentale deviva dallo scontro psicologico fra questi tre luoghi psichici del soggetto.

In quest'ottica, l'interesse si sposta dalla persona-corpo alla persona-psiche, consentendo tra l'altro un recupero della soggettività dell'uomo, che nel modello medico, era assente12.

Il concetto di infermità, pertanto, si allarga, fino a comprendere non solo le psicosi organiche, provocate da un noto agente patogeno e accompagnate da conosciute alterazioni anatomo-patologiche, ma anche altri disturbi morbosi dell'attività psichica.

Pertanto, in questa nuova chiave di lettura vanno riesaminate oltre alle nevrosi13 anche i disturbi dell'affettività e le psicopatie14 , che da sempre costituiscono una zona grigia fra la normalità e l'anormalità.

In relazione a quest'ultime, in giurisprudenza si è registrata una diversità di valutazioni. Inizialmente considerate delle «semplici alterazioni del carattere che lasciano generalmente integra la capacità mentale e, nelle forme degenerative interessano solo la sfera affettiva»15, in un secondo momento si è ammessa la rilevanza di tale disturbo a condizione che presentasse «particolare gravità».16

Secondo questa impostazione, dunque, qualunque disturbo morboso di carattere psichico può risultare idoneo ad escludere la capacità di intendere e di volere. Al contrario, le alterazioni mentali, classificabili come malattie in senso psichiatrico, non debbono, perciò solo, essere considerate cause di esclusione o di attenuazione dell'imputabilità.

Il paradigma psicologico pur presentando l'innegabile vantaggio di aver recuperato la soggettività dell'uomo, superando le rigide schematizzazioni del modello psichiatrico, presenta un grande limite : non riesce a spiegare le malattie mentali di origine sociale.

Il modello sociologico della malattia mentale

Intorno agli anni Settanta del secolo scorso si afferma il terzo paradigma della malattia mentale, c.d. sociologico, secondo il quale la malattia mentale è disturbo psicologico avente origine sociale, non più attribuibile a una causa individuale di natura organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell'ambiente in cui il soggetto vive. Esso nega la natura fisiologica dell'infermità e pone in discussione anche la sua natura psicologica e i principi della psichiatria classica, proponendo, in sostanza, un concetto di infermità di mente come malattia sociale.

Da questo originario nucleo della psichiatria sociale hanno avuto origine indirizzi più radicali che hanno estremizzato il ruolo dei fattori sociali 17 . In particolare, si inizia a parlare di crisi del concetto di malattia mentale e si sviluppa una corrente di pensiero definita antipsichiatria, la quale, ponendosi in netto contrasto con la psichiatria tradizionale, giunge a negare l'origine psicopatologica dell'infermità mentale. Posizioni più estreme considerano la malattia mentale, addirittura, un'invenzione degli psichiatri e del potere cui questi erano asserviti e il sofferente psichico viene inteso come frutto della stigmatizzazione sociale e dell'istituzione manicomiale.

Mentre il paradigma psicologico peccava per difetto, in quanto non riusciva a fornire adeguata spiegazione alle malattie di origine sociale, l'orientamento in questione, al contrario, pecca per eccesso, in quanto esaspera il concetto di infermità, con la conseguenza che qualunque deviazione sociale potrebbe determinare una situazione di non imputabilità.

Il modello bio-psico-sociale della malattia mentale

Nella moderna psichiatria la tendenza più recente è l'affermazione di un paradigma integrato dell'infermità mentale18. La scienza psichiatrica ha colto di ciascuno dei modelli richiamati gli aspetti più convincenti inserendoli in un modello misto, di tipo "bio-psico-sociale". Si riconosce, in altri termini, l'influenza nella malattia mentale tanto di variabili biologiche, quanto di fattori extrabiologici. La motivazione principale alla base di tale scelta va indentificata nella presa di coscienza circa la multifattorialità dei disturbi psichici, sia per quanto riguarda la genesi che il decorso.

In tale prospettiva, la nozione di infermità si presta a ricomprendere anche i disturbi mentali transitori che a stretto rigore non potrebbero essere qualificati malattia o infermità vera e propria, ma influenzando sfovorevolmente la ragione e la libertà di scelta potrebbero di fatto condizionare la coerenza dell'agire. Si tratta, infatti, di condizioni che determinano una alterazione della coscienza durante la realizzazione del fatto, determinando una frattura nei confronti della realtà.

Peraltro, che il disturbo transitorio possa risultare rilevante ai fini dell'esclusione dell'imputabilità, è ribadito da gran parte della dottrina più recente19, e significative aperture si roscontrano anche in alcune pronunce della Suprema Corte20.

In quest'ottica allargata si prospetta, inoltre, la possibilità di utilizzare diverse strade terapeutiche, che affrontino il disturbo mentale secondo una "strategia globale" di tipo"multi modale" 21.

Il vizio di mente nell'evoluzione giurisprudenziale

Il proliferare di nuove classificazioni dei disturbi psichici, peraltro in continua evoluzione, ha fatto sì che l'originaria sintonia tra psichiatria e giustizia sul concetto di infermità mentale iniziasse a vacillare. I mutamenti intervenuti sulla nozione dell'infermità mentale nella scienza psichiatrica, si sono ripercossi in seno alla giurisprudenza creando un profondo disorientamento.

Per lungo tempo, fino a quando la psichiatria proponeva un unico criterio interpretativo, quello medico, diritto e scienza psichiatrica si sono ritrovate in perfetta armonia. Si era concordi nel ritenere che il disturbo rilevante ai fini dell'esclusione dell'imputabilità fosse solo quello nosograficamente inquadrato.

Infatti, un indirizzo a lungo prevalente nel passato, e ancora oggi molto diffuso, in armonia con il modello medico della malattia mentale, subordina il riconoscimento di un vizio totale o parziale di mente all'accertamento di una malattia di tipo organico22, ovvero di un disturbo nosograficamente inquadrato, ritenendo che al di fuori di una patologia ben definita, le abnormità psichiche come le nevrosi o le psicopatie non assumono rilevanza per l'imputabilità 23 .

Negli ultimi anni, ha trovato spazio un'interpretazione estensiva, recettiva del paradigma psicologico, che consente di annoverare tra gli incapaci di intendere e di volere anche i soggetti affetti da disturbi aspecefici, ovvero non inquadrabili nosograficamente24, subordinandone la rilevanza a volte alla loro "particolare intensità" 25, altre volte al c.d. "valore di malattia" del disturbo26, o alla sovrapposizione su di esso di uno "stato patologico" 27 o ancora al "nesso causale tra infermità e reato" 28 .

Nella moderna psichiatria, come detto, si propende per un modello integrato di infermità mentale che tenga conto di tutte le variabili biologiche, psicologiche, sociali e relazionali che entrano in gioco nel determinismo della malattia. Si riconosce, in altri termini, l'influenza nella malattia mentale tanto di variabili biologiche, quanto di fattori extrabiologici. Il riconoscimento di un modello integrato dei disturbi psichici e l'accoglimento di un concetto elastico di infermità, in grado di estendersi fino a comprendere, in particolare, anche i gravi disturbi della personalità, hanno trovato conferma nella sentenza Raso delle Sezioni Unite, che mira a dirimere i profondi contrasti giurisprudenziali sul tema.

Va evidenziato che allo stato attuale, sebbene non possa dirsi totalmente abbandonato il paradigma medico dell'infermità mentale, sono ormai numerose le pronunce sia di merito che di legittimità successive alla sentenza Raso, che si allineano alle indicazioni espresse dalle Sezioni Unite 29 .

Le sezioni unite voltano pagina in tema di imputabilità (sentenza Raso, 25 gennaio 2005 n. 9163)

Il fatto che abbiano convissuto e convivano diversi orientamenti nella giurisprudenza ha provocato uno stato di incertezza tale che ha richiesto un intervento delle Sezioni Unite. In tale contensto di confusione e oscillazioni giurisprudenziali ha fatto chiarezza la sentenza del 25 gennaio 2005 n. 9163, nota come sentenza Raso.

La pronuncia si contraddistingue per essere una delle più puntuali ed aggiornate degli ultimi anni, recependo il sapere della miglior dottrina penalistica e specialistica in materia di imputabilità; si pone, inoltre, in perfetta armonia con le storiche pronunce della Corte Costituzionale del 1988 n.364 e la n.1085 che hanno riconosciuto il rango del principio di colpevolezza e suggellato il ruolo centrale che al suo interno gioca l'imputabilità. L'imputabilità costituisce, quindi, per il diritto positivo, il presupposto per l'affermazione della responsabilità del soggetto agente - cui solo consegue l'assoggettabilità a pena - e sottende l'accertamento di una condizione in chiave essenzialmente normativa, per ciò di definitiva competenza del giudice. Da qui il passaggio successivo: non può esservi colpevolezza senza rimproverabilità, la quale postula, a sua volta, "la necessità, per la punibilità del reato, della effettiva coscienza, nell'agente, della antigiuridicità del fatto". In tanto ha senso, dunque, parlare di rimproverabilità di un atto, in quanto l'agente abbia effettiva coscienza dell'antigiuridicità del fatto; ed in tanto può ritenersi tale coscienza, in quanto l'atto si inserisca nella facoltà di controllo e di scelta dell'agente, l'atto medesimo rimanendo altrimenti ascrivibile a lui solo per una relazione meccanicistica ed al postutto meramente oggettiva.

La necessità di un' interpretazione estensiva e adeguatrice dell'espressione "infermità" di cui agli art. 88 e 89, da tempo auspicata in dottrina, è stata sostenuta dalla Corte attraverso diverse argomentazioni.

Innanzitutto sulla base della considerazione che oggi prevale un paradigma integrato dell'infermità mentale, ovvero un modello cosiddetto biopsicosociale, per cui si riconosce una natura multifattoriale dei disturbi psichici. Possono incidervi tanto le componenti di tipo organico, tanto le componenti di tipo psicologico, quanto fattori sociologici.

Un'altra considerazione a sostegno della conclusione suddetta è il richiamo all'atteggiamento della dottrina più moderna che da tempo tende ad accogliere un concetto di infermità più ampio di quello tradizionale, non strettamente vincolato alla natura organica del disturbo, ma che tenga conto soprattutto dell'effettivo impatto che il disturbo ha avuto sulla capacità di intendere e di volere del soggetto al momento del fatto. Si riconosce, cioè, che dal punto di vista naturalistico, ci possono essere disturbi di natura non organica che incidono fino ad escludere del tutto la capacità di intendere e di volere. Per converso ci possono essere disturbi di natura organica che possono lasciare spazi di lucidità nel caso concreto. Per cui bisogna distinguere caso per caso.

Il favore verso un concetto ampio d' infermità, trova, inoltre, conferma nelle indicazioni desumibili da un indagine comparativa degli ordinamenti giuridici stranieri. Tutti gli ordinamenti giuridici più recentemente riformati, accolgono un concetto d'infermità più ampio di quello classico: si pensi all'ordinamento tedesco, austriaco, francese, e svedese nei quali si fa riferimento ad un modello definitorio dell'infermità mentale strutturato in clausole aperte che tengano conto di criteri normativi, biologici e psicologici: si utilizzano, a tal proposito, termini come disturbo psichico, anomalia psichica, turbe mentali patologiche.

L'intervento chiarificatore delle Sezioni Unite era pertanto doveroso nel tentativo di assicurare l'uniformità degli indirizzi giurisprudenziali e l'unità del diritto oggettivo nazionale.

Secondo il collegio giudicante, che analizza molto approfonditamente la questione con quasi cinquanta pagine di motivazione, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto di infermità anche i "gravi disturbi della personalità", a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l'intensità, tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa.

Quanto al contenuto della sentenza, la Corte ha poi puntualizzato come prevalga oggi l'affermazione di una netta separazione della nozione di malattia mentale da quella di infermità, di cui agli artt. 88 e 89 c. p., tale per cui la prima strettamente intesa, si distinguerebbe per essere un processo morboso con caratteri peculiari, con una patogenesi ed una somatologia proprie ed un'evoluzione temporale, con un suo inizio, un decorso ed una fine; mentre la seconda, quale devianza della funzione in generale, ricomprenderebbe anche altre forma di anomalie psichiche che "non comportano di per sé una perdita del senso della realtà" e le cui "manifestazioni si muovono ancora nell'ambito di una certa comprensibilità e non totale assurdità della reazione psichica".

Proprio alla luce della non sovrapponibilità dei due termini nella prospettazione codicistica, perderebbe consistenza la riconducibilità all'infermità delle sole alterazioni organiche.

Quando allora si può parlare di infermità mentale? Quando cioè si ricade nei casi di cui agli articoli 88 e 89 c.p.?

Secondo le Sezioni Unite «a conferma della maggiore ampiezza del termine di infermità rispetto a quello di malattia, non interessa tanto che la condizione del soggetto sia esattamente catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di medicina, quanto che il disturbo abbia in concreto l'attitudine a compromettere gravemente la capacità di percepire sia il disvalore del fatto commesso, sia di recepire il significato del trattamento punitivo».

Si ritiene, pertanto, che, anche al di fuori di rigide catalogazioni nosografiche, quel che interessa accertare è l'assetto psichico dell'agente, cioè la sussistenza o meno, in quel determinato frangente e momento storico, di sue attitudini autodeterminative, in termini di capacità di intendere e di volere, con apertura a tutti quei disturbi mentali, iscrivibili nel novero delle infermità - non necessariamente organico-biologiche o nosograficamente inquadrabili - che per la loro consistenza, intensità, rilevanza e gravità siano tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere, del tutto caducando o grandemente scemando il relativo potere autodeterminativo del soggetto.

In definitiva, dall'esame sintetico dello stato attuale degli studi scientifici sull'infermità mentale, emerge la tendenza nella moderna psichiatria, abbandonate tesi aprioristiche, a riconoscere una potenziale rilevanza, sia pure eccezionale, sul piano dell'imputabilità anche dei disturbi atipici o della personalità in genere.

Precisa la Corte che deve trattarsi, però, di un «disturbo idoneo a determinare una situazione di assetto psichico incontrollabile e ingestibile che, incolpevolmente, rende la gente capace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente di indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi ».

Le condizioni della suddetta idoneità sono stati individuate nella gravità e intensità del disturbo, tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere, nonché nel nesso eziologico con la specifica azione criminosa, che devono essere puntualmente accertati dal giudice.

Le Sezioni Unite hanno invece escluso che il rilievo di "incisività" sulla capacità di autodeterminazione del reo, sia riscontrabile nelle altre "anomalie del carattere" o in quelle legate all'indole del soggetto, come pure negli stati emotivi e passionali, salvo nel caso in cui si inseriscano in un più ampio quadro di infermità.

Questo orientamento comporta la crisi del criterio della ritenuta necessaria sussumibilità dell'anomalia psichica nel novero delle rigide e predeterminate categorie nosografiche lasciando contemporaneamente aperta la porta, ai fini del giudizio circa la configurabilità o meno del vizio di mente, sia esso totale e parziale, al concetto di disturbo della personalità.

Sul concetto di disturbo di personalità, infine, si esprime il più moderno e diffuso manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il DSM-IV, che viene appositamente richiamato dalle Sezioni Unite. Secondo l'autorevole opera, nata in seno all'American Psychiatric Association nel 1994, i disturbi della personalità comprendono il disturbo paranoide di personalità, quello istrionico, quello narcisistico, quello antisociale, quello dipendente e quello ossessivo-compulsivo.

Si deve però precisare, a questo punto, il grado di scientificità dei moderni manuali su cui fondare la diagnosi della infermità mentale. Occorre, cioè, una verifica epistemologica di tale strumento.

Fino a quando si tratta di arrivare ad una diagnosi dei disturbi mentali, l'impiego dei manuali diagnostici ha una sua validità, quando si deve valutare poi se il disturbo diagnosticato ha inciso sulla capacità di intendere e di volere dell'imputato il discorso si complica. L'inadeguatezza del DSM a fungere da punto di riferimento per il giudice sarebbe da imputare al tipo di classificazione di cui il manuale si avvale, distinguendo i disturbi in base ai sintomi che essi presentano, e non in base alla causa degli stessi. Ugo Fornari, a tal proposito, ha ribadito il concetto: «il DSM è un manuale statistico non clinico e pertanto non ha e non deve avere il valore di un trattato di psichiatria»30.

In questo senso, fondare una diagnosi su un'impostazione meramente descrittiva può rivelarsi del tutto insufficiente, essendo, invece, necessario indagare con rigore clinico sulla natura della persona e sui meccanismi psichici e psicopatologici messi in atto nel caso concreto. E' bene allora integrare la diagnosi descrittiva, compiuta attraverso il DSM, con diversi criteri di tipo biologico-medico, di tipo clinico-psichiatrico e di tipo psicologico, i quali si rivelano particolarmente efficaci per valutare il piano più problematico del giudizio di imputabilità relativo agli effetti dell'anomalia sulla capacità di intendere e di volere31. Peraltro, il rinvio effettuato dalla Corte ai manuali diagnostici è servito per corroborare il suo principio, per rilevare, cioè, che i disturbi della personalità rientrano nella nozione di vizio di mente.

Secondo le Sezioni Uniti, in definitiva, nessun dubbio permane sulla circostanza che anche i disturbi della personalità possano incidere sulla capacità di intendere e di volere. Ma perché ciò abbia una qualche rilevanza giuridica ancorano il giudizio sull'esclusione dell'imputabilità derivante da vizio di mente a due presupposti.

In primo luogo occorre che i disturbi della personalità siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere. Dunque un «disturbo idoneo a provocare una situazione di assetto psichico incontrollabile e ingestibile [...] che renda l'agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente autodeterminars32.

Ai fini di tale accertamento il giudice dovrà avvalersi oltre che di una indispensabile consulenza tecnica, di ogni elemento di valutazione e di giudizio desumibile dalle acquisizioni processuali.

In secondo luogo, occorre, secondo la Cassazione, che il giudice, nell'accertare «il fatto, trovi la sua genesi e la sua motivazione nel disturbo mentale stesso»33. Risulta cioè necessario, perché si possa parlare di infermità di mente e di esclusione di capacità di intendere e di volere, che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo.

Si chiude così almeno per il momento un capitolo della storia della nostra giurisprudenza che vedeva ruotare intorno al concetto di imputabilità e di infermità orientamenti tra di loro contrapposti. Le incertezze, tuttavia, persistono poiché «l'affermazione del principio di diritto affonda le sue radici nel mondo empirico-fattuale della scienza medico-legale e psichiatrico-forense» ; ciò dimostra come non vi siano sicuri mezzi scientifici a cui ancorare la decisione del giudice.

Sarebbe, pertanto, auspicabile un intervento del legislatore che defisse in maniera chiara i contorni di una materia particolarmente complessa e nebulosa, ancorando il concetto di infermità al principio di legalità, tassatività e determinatezza, scungiurando, così, il rischio di eteregeneità di valutazioni da parte dei singoli giudici e recuperando l'oggettività del diritto nazionale.

Stati emotivi e passionali e responsabilità penale

La possibilità di estendere il significato dell'infermità, di cui all'art. 88 c.p. trova un limite esplicito nell'art 90 c.p., che esclude la rilevanza degli stati emotivi e passionali 34 in tema di imputabilità.

Questa disposizione precisa che i fattori che non attengono alla sfera intellettiva o volitiva del soggetto, ma a quella sentimentale o affettiva, data da emozioni e passioni sono completamente estranei al concetto di imputabilità.

In questo logico discorso volto ad inneggiare alla parte "intellettiva", spesso ci dimentichiamo della meno razionale, ma pur sempre umana, parte "animale" del nostro essere, dalla quale scaturiscono le emozioni e le passioni, con le quali insieme a sentimenti positivi, come l'affettività e l'amore, raffiora, in determinate, potremmo dire drammatiche, situazioni, una istintualità che genera gesti, talvolta apparentemente immotivati, ma comunque sempre sproporzionati rispetto alla causa, che, riuscendo a by-passare la sfera della coscienza, possono indurre alla perpretazione di delitti.

La sfera dell' affettività della persona, cui gli stati suddetti attengono, ha suscitato l'interesse degli studiosi sin dall'antichità: già Aristotele, nel suo Perì psychés sosteneva l'esistenza di due "motori" dell'azione umana, la ragione e l'emozione, affermando che se essi possono nella gran parte dei casi procedere di pari passo, divenendo così l'emozione spinta positiva che concretizza l'azione ragionata, altre volte, invece si scindono, potendo l'emozione causare un'azione non voluta o, addirittura, non condivisa della ragione. Infatti, egli affermava che un'azione umana nasce da un desiderio emozionale oppure dalla consapevolezza di ciò che è bene, ma se l'armonia tra desiderio e consapevolezza viene meno, sarà inevitabilmente la passione a prendere il sopravvento.

Che le emozioni siano espressione pura della istintualità dell'essere umano e che abbiano poco a che fare con la ragione, viene confermato dal fatto che due diversi soggetti, di fronte ed un'identica situazione, che sia di una certa valenza affettiva, potranno agire con modalità completamente diverse, a seconda dell'habitus caratteriale: "in altri termini l'emozione va studiata nelle sue modalità di integrazione nella struttura della personalità" 35 .

Molti secoli dopo Cartesio, con Spinosa tra i maggiori teorici delle passioni nel pensiero filosofico moderno, intuisce l'impossibilità, per chi agisce sotto l'influenza delle passioni, di possedere una chiara conoscenza della realtà 36 .

In ambito scientifico si è rilevato come in realtà esista una linea di demarcazione tra emozioni e passioni. Così si è detto che emozione è l'intenso turbamento affettivo, di breve durata e in genere di inizio improvviso, provocato come reazione a determinati avvenimenti e che finisce col predominare sulle altre attività psichiche (ira, paura, gioia, spavento, vergogna, ecc..). La passione, invece, è uno stato affettivo violento e più duraturo, che tende a predominare sull'attività psichica in modo più o meno invadente o esclusivo, sì da comportare talora alterazioni della condotta, che può divenire del tutto razionale per difetto di controllo37. A essa sono riconducibili certe forme di amore sessuale, di odio, di gelosia, di entusiasmo, di ideologizzazione politica38. Ciò che distingue questo tipo di delitto da quello emotivo è la progressiva corrosione della volontà, una concentrazione affettiva che paralizza i poteri di critica e di controllo e che assorbe tutta la vita di un individuo. Tali stati passionali, pertanto, provocano dei profondi e duraturi perturbamenti psichici che sono in grado di disorganizzare l'equilibrio mentale dell'Io a tal punto da indurlo, in determinate circostanze, a commettere un gesto criminale.

Tuttavia, nonostante i tentativi volti a far emergere la distinzione, non solo teorica, fra i due concetti, la rigida formulazione dell'art. 90 c.p. li accomuna sotto la stessa veste giuridica.

Si tratta di una disposizione che riflette innanzitutto l'assunto, dominante al momento dell'emanazione del codice, dell'equivalenza tra "infermità" escludente l'imputabilità e "malattia mentale" in senso stretto; nasce dalla esigenza di evitare di dichiarare incapace di intendere e di volere ogni autore di delitto "impulsivo".

È importante sottolineare che erano, di fatto, in molti a ritenere che potesse essere una scelta migliore affidare alla discrezionalità del giudice una valutazione così delicata, come era già previsto nel codice Zanardelli. Tuttavia, il legislatore, preoccupato delle facili assoluzioni che sarebbero potute seguire lasciando interamente al giudice la decisione, ha operato una scelta diversa, di tipo essenzialmente pedagogico, per stimolare, cioè, il dominio della volontà sulle proprie emozioni e passioni39.

I dissensi manifestati nella fase di redazione legislativa, tuttavia, non si placarono affatto e continuarono a presentarsi in sede interpretativa. Inizialmente gli stati emotivi e passionali erano da considerare rilevanti tutt'al più come possibile «fondamento delle attenuanti generiche, soprattutto se concorrono con circostanze di natura ambientale e sociale che abbiano influito negativamente sullo sviluppo della personalità del reo».40

Successivamente, è andato consolidandosi un orientamento che ammette «la rilevanza scusante degli stati emotivi e passionali nei soli casi in cui siano "sintomo rivelatore", "causa" o "conseguenza" di una vera e propria infermità mentale […], consentendosi direttamente l'applicazione degli artt. 88 e 89 c.p.».41

La giurisprudenza più recente, pertanto, forse più consapevole, dell'eccessiva rigidità della norma in questione ha aperto la strada ad una interpretazione più elastica della disposizione, attribuendo rilevanza a quegli stati emotivi e passionali costituenti manifestazione di uno stato patologico e come tali inidonei ad incidere sulla capacita di intendere e di volere. Significativa a riguardo è una pronuncia della Suprema Corte secondo la quale «gli stati emotivi o passionali, per loro stessa natura, sono tali da incidere, in modo più o meno massiccio, sulla lucidità mentale del soggetto agente senza che ciò, tuttavia, per espressa disposizione di legge, possa escludere o diminuire l'imputabilità». Pur segnalando una discrasia tra previsione legislativa e realtà emotiva del soggetto, la sentenza prosegue riproponendo un criterio consolidato, secondo il quale, «affinché lo stato emotivo o passionale possa escludere l'imputabilità, deve ricorrere un "quid pluris" che, associato allo stato emotivo o passionale, si traduca in un fattore determinante un vero e proprio stato patologico, sia pure di natura transeunte e non inquadrabile nell' ambito di una precisa classificazione nosografica». L'esistenza o meno di detto fattore va accertata sulla base degli apporti della scienza psichiatrica la quale, tuttavia, nella vigenza dell'attuale quadro normativo e nella sua funzione di supporto alla decisione giudiziaria, non potrà mai spingersi al punto di attribuire carattere di "infermità", ad alterazioni transeunti della sfera psico-intellettiva e volitiva che costituiscano il naturale portato degli stati emotivi e passionali di cui si sia riconosciuta l'esistenza.42. In questa logica, ad esempio, si è ritenuto irrilevante ai fini dell'esclusione dell'imputabilità, un impeto di gelosia momentaneo, che abbia spinto il soggetto alla commissione di un reato43, mentre rileverebbe, viceversa, una forma ossessiva di gelosia, espressione di una psicopatologia in atto44.

Anche in relazione alla disposizione in commento, un ruolo determinante è stato svolto dalla sentenza Raso. Infatti, una volta superata la rigida distinzione tra malattia mentale e disturbo della personalità, e una volta affermato che si tratta di volta in volta di stabilire in concreto se un disturbo della personalità sia indicativo di una situazione di infermità mentale, si chiarisce anche il criterio da utilizzare per stabilire quando lo stato emotivo o passionale possa eccezionalmente rilevare ai fini della esclusione dell'imputabilità. In altri termini non si tratterà più individuare il discrimine nell'esistenza di una malattia mentale in senso tradizionale. Né si tratterà di affermare che lo stato emotivo deve trasmodare dalla sfera puramente psicologica in quella dello squilibrio mentale, laddove è evidente la a-scientificità di tali concetti. Si tratta invece di valutare se in concreto lo stato emotivo sia da ricollegare a un disturbo della personalità, anche non altrimenti specificato, e se, sempre in concreto, il disturbo sia stato tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere dell'autore.

Il paradigma neuroscientifico

L'approccio più moderno sull'accertamento dell'infermità affermatosi negli ultimi anni è il c.d. "paradigma neuroscientifico": si ritiene possibile, attraverso la neuroanatomia, misurare la struttura del cervello al fine di rilevare eventuali alterazioni e fornire risultati empirici dotati di un elevato grado di probabilità scientifica. Le neuroscienze studiano, infatti, il sistema nervoso, analizzano la comprensione del pensiero umano, le emozioni e i comportamenti biologicamente correlati, attraverso cui si manifesta o non manifesta lo stesso, utilizzando strumenti altamente scientifici, atti ad esaminare molecole, cellule e reti nervose45. In questo modo si mettono a disposizione del diritto metodi e strumenti in grado di ovviare alle criticità connesse alle scienze del comportamento e forniscono un importante contributo a chi è chiamato a valutare la capacità di intendere e di volere. A tal fine, come è stato opportunamente chiarito dagli stessi scienziati, le neuroscienze sono importanti perché offrono maggiore oggettività della valutazione peritale. Il che non va assunto affatto nei termini di dare certezza delle risposte, quanto piuttosto va inteso nel senso di fornire ipotesi dotate di un certo grado di probabilità scientifica, che consentono cioè di evidenziare le condizioni di vulnerabilità o fattori di rischio, la cui presenza rende statisticamente più probabile il comportamento criminale e che insieme alle altre evidenze psicopatologiche e processuali forniscono la spiegazione più convincente del fatto illecito. A ciò si aggiunga che autorevoli studi scientifici hanno dimostrato come il paradigma e i metodi neurologici siano in grado di apportare significativi contributi alla comprensione di comportamenti rilevanti in ambito giuridico, quali lo sviluppo della maturità del minore nel giudizio e l'effetto del polimorfismo genetico predisponente ai comportamenti violenti ed aggressivi.

I sostenitori di tale metodo ritengono che attraverso la neuroscienza sia possibile non solo individuare le correlazioni tra il substrato organico-biologico e il comportamento criminale ma anche farlo con la massima precisione, garantendo all'accertamento dell'infermità un maggiore tasso di oggettività. Tutto ciò sarebbe possibile grazie ai sofisticati strumenti, attualmente a disposizione, di visualizzazione cerebrale (neuroimaging) come "l'analisi computerizzata del tracciato EEG, che realizza un mappaggio selettivo dell'attività elettrica in specifiche aree cerebrali, la tomografia assiale computerizzata (TAC), la risonanza magnetica funzionale (fMRI), la tomografia ad emissione di positroni (PET), […] fino allo studio della neurobiologia molecolare…"46.

La portata innovativa di questo approccio è costituita dal fatto che le questioni giuridiche per la prima volta vengono viste, come riflesso dell'attività cerebrale e come se fosse l'organizzazione ed il funzionamento del cervello a determinare il modo in cui gli uomini arrivano alla formazione dei precetti normativi ed obbediscono alle norme stesse. La tecnica del neuroimaging, ad esempio, è capace di individuare le componenti neurobiologiche delle decisioni di tipo automatico, involontarie o d'impeto. Nello specifico si è evinto che in presenza di azioni di questo tipo, la consapevolezza di averle compiute interviene successivamente, anche se di poco, all'effettivo compimento, e questo a prescindere dalla fatto che siano azioni semplici o complesse47.

Ciò posto, al fine di comprendere il reale impatto che le neuroscienze possono avere nell'ambito che ci occupa, si ritiene opportuno analizzare, seppur succintamente, un caso giudiziario che ha trovato soluzione attraverso l'utilizzo di tecniche neuroscientifiche 48.

A mezzo della citata sentenza, il Giudice, nella forma del rito abbreviato, condannava alla pena di venti anni di reclusione una giovane donna imputata e riconosciuta colpevole di aver ucciso a Cirmido (Como) la sorella quarantenne. La donna veniva arrestata in flagranza di reato per aver tentato di uccidere anche la madre, il cui intento è stato sventato solo grazie ad un intervento tempestivo degli investigatori, favorito dal monitoraggio della donna mediante intercettazioni ambientali. Dalle indagini svolte affiorava, da subito, un quadro particolarmente complesso caratterizzato da frequenti episodi di violenza nei confronti dei familiari. Dal gravissimo disegno criminoso emerso, l'imputata fu chiamata a rispondere del sequestro di persona e poi dell'omicidio della sorella, nonché dei reati di soppressione e distruzione di cadavere, di indebito utilizzo di carte di credito e di procurata incapacità di intendere e di volere del padre attraverso la somministrazione di medicinali che ne provocarono il ricovero in ospedale, di tentato omicidio della madre attraverso strangolamento. Le modalità di esecuzione del piano omicida, poco razionali e scarsamente organizzate, resero necessario attuare un'approfondita indagine per stabilire la capacità di intendere e volere della donna.

Come spesso si verifica nella prassi giudiziaria la difesa e l'accusa giunsero a conclusioni contrapposte: in particolare il consulente della difesa concluse ritenendo che l'imputata avesse agito sotto l'effetto di una condizione patologica di tipo psicotico che l'aveva resa totalmente incapace di intendere e volere; l'accusa, al contrario, pur individuando disturbi di tipo istrionico e dissociativo, ritenne che la patologia non avesse minimamente intaccato la capacità di intendere e di volere della donna. Nelle motivazioni il Gi.p. prese le distanze da entrambe le posizioni ritenendole «carenti» sotto il profilo metodologico in quanto «basato solo su colloqui clinici senza l'ausilio di test psicodiagnostici» e «mancante di un fondato percorso logico-argomentativo49». La difesa, pertanto, otteneva l'autorizzazione a completare gli accertamenti psichiatrici con altri consulenti, sia mediante nuovi e più approfonditi colloqui clinici, sia, sopratutto, mediante indagini legate alle neuroscienze cognitive e alla genetica comportamentale.

All'esito di tali accertamenti, gli stessi consulenti della difesa hanno rivisto le conclusioni iniziali di parte, ipotizzando una terza opzione: parziale incapacità di intendere e di volere al momento della commissione dei fatti.

Il Giudice, nella consapevolezza che «le conclusioni psichiatriche costituiscono un parere tecnico che non costituisce verità ma solo conoscenza, comprensione dell'accaduto» e che la decisione giudiziaria deve essere il «prodotto di una valutazione complessiva logica e coordinata delle emergenze psichiatriche e di quelle processuali», ritenne convincenti le conclusioni cui pervenne la seconda consulenza tecnica della difesa riconoscendo all'imputata un vizio parziale di mente e condannandola a venti anni di reclusione. Data la sua pericolosità sociale, il giudice dispose, inoltre, l'immediato ricovero in una casa di cura psichiatrica.

Nella sentenza, è degna di nota la particolare attenzione che il giudice dedica all'innovativo approccio della perizia di parte, che pare essere risolutivo rispetto alle «crescenti difficoltà della psichiatria odierna di distinguere con sicurezza e precisione tra sanità e infermità mentale». Dopo aver premesso che non è ancora in atto una «rivoluzione copernicana» in tema di accertamento e diagnosi della malattia mentale, il giudice ha comunque sottolineato come nel caso di specie la difesa si sia avvalsa di procedure maggiormente obiettive rispetto alle altre perizie, in quanto corroborate da risultanze di imaging cerebrale e di genetica molecolare.

Invero, dal testo della statuizione emerge l'esigenza di ricorrere a tecniche che riescano a diagnosticare le infermità mentali con un grado accettabile di oggettività e di certezza.

In conclusione, alla luce delle considerazioni svolte, non si può non rilevare come la decisione in esame rappresenti un'importante presa di posizione giurisprudenziale, che si inserisce nella logica di un'auspicato intervento di ammodernamento del processo di formazione della prova in un settore complesso e di difficile inquadramento come quello dell'imputabilità. Ciò detto, non è possibile, in questa sede, prevedere quale apporto le neuroscienze potranno recare al mondo del diritto; esse rappresentano sicuramente uno strumento in grado di fornire risposte meno discrezionali rispetto a quelle ottenibili facendo esclusivo riferimento ai metodi propri della clinica tradizionale e possono, pertanto rivelarsi un utile supporto al fine di pervenire ad una corretta valutazione della capacità di intendere e volere di un soggetto.

1 MANTOVANI, Diritto penale, parte gen., IX ed., Padova 2015, p. 628.

2 FIANDACA, MUSCO, Diritto penale parte gen., VI ed., Bologna, 2015, p.335.

3 In tal senso M.T. COLLICA, Il reo imputabile, in La legge penale, il reo, la persona offesa dal reato, G. DE VERO (a cura di), Torino, 2010, p. 16.

4 M.T. COLLICA, Vizio di mente: nozione, accertamento e prospettive, Torino, 2007, p.42

5 Sui diversi piani di giudizio dell' imputabilità il primo c.d. psicopatologico relativo alla diagnosi delle malattie mentali, e l' altro di tipo normativo concernente l' accertamento del grado di incidenza del disturbo sulle capacità conoscitive e volitive del soggetto al momento del fatto, V.PULITANO', L' imputabilità come problema giuridico, in DE LEONARDIS GALLO-MAURI-PITCH (a cura di),Curare e punire. Problemi e innovazioni nei rapporti tra psichiatria e giustizia penale, Milano 1988, p. 127 ss

6 Ad oltre un secolo di distanza dalle sue origini , questa impostazione di tipo scientifico-naturalistico della psichiatria non può ritenersi abbandonata, come dimostrerebbero, tra l'altro, la fondazione, avvenuta nel 1978, della Società Italiana di Psichiatria Biologica,o gli studi di Kety, professore di psichiatria all' Harvard Medical School, in cui si individua una base organica anche nei disturbi dell'affettività. Rif. in SMIGLIANI, Imputabilità ed anomalie della personalità e del carattere, in Giust. Pen.,1986, I, p.152. Peraltro, nuove e più ricercate tecnologie applicate alla medicina e gli sviluppi registratisi delle neuroscienze hanno stimolato importanti progressi della ricerca nella psichiatria bilogica. Tra questi si ricordino: l'analisi computerizzata del tracciato EEG, che realizza un mappaggio selettivo dell'attività elettrica di specifiche aree celebrali; le tecniche di neuroimaging ; la TAC, l'RMN; la PET, la SPECT; nonché le acquisizioni sull'attività neurotrasmettitoriale e neuromodulatoria, fino allo studio della neurobiologia molecolare.

7 Cass. 23 ottobre 1978, in Giust. pen.,1979, II, p.406;

8 Fra le varie classificazioni delle psicosi, tra l'altro non sempre coincidenti, SCHNEIDER, Die psychopathischen Personlichkeiten, Wien, 1950, distingue tra psicosi organiche o esogene e psicosi funzionali o endogene.

9 M.T. COLLICA, Vizio di mente: nozione, accertamento e prospettive, Torino, 2007, p.47.

10 BERTOLINO, La crisi del concetto di imputabilità, in Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p.240.

11 T. BANDINI, B. GUALCO, Imputabilità e misure di sicurezza. Riflessioni clinico-criminologiche, in MANNA (a cura di), Imputabilità e misure di sicurezza , cit., p.22.

12 GRECO-CATANESI, La malattia mentale e la giustizia penale, Milano, 1988, p. 6.

13 Condizione di sofferenza psichica, caratterizzata da ansia, in misura eccedente e più duratura di quella presente in ogni persona, che di regola non intacca i processi intellettivi né deteriora la personalità nel suo complesso. Controversa è la differenza tra nevrosi e psicosi, essendo per alcuni solo quantitativa, per altri anche qualitativa. Le principali forme di nevrosi riguardano: a) le nevrosi d'ansia, caratterizzate dalla comparsa improvvisa di attacchi di una sensazione di paura irrazionale di un oggetto non noto nè ben definibile, accompagnate dalla convinzione che qualcosa di tremendo e di letale sta per succedere. L'attacco compare d'improvviso, e la sensazione viene descritta dal paziente come una paura irrazionale, mal definita, non paragonabile a nulla di già provato in precedenza. Un sintomo frequente è la paura di poter diventare pazzi, di perdere il controllo di se stessi e delle proprie azioni, di non riuscire a dominare la situazione nella quale ci si trova; b) le nevrosi isteriche,caratterizzate da un'esasperata emozionabilità ed insofferenza per le situazioni disturbanti, con tendenza a richiamare su di sé l'affetto e le attenzioni altrui.la più nota è la crisi convulsiva; c) le nevrosi depressive, spesso legate ad un avvenimento doloroso improvviso e tendenti a stabilizzarsi nel tempo; d) nevrosi post-traumatiche, sviluppatesi a seguito di trauma fisico, in virtù delle quali l'idea di aver riportato un danno, crea per autosuggestione, i sintomi e i dolori che nell'immaginazione dell'infortunato dovrebbero scaturire dall'infortunio; e) nevrosi ossessive o compulsive, caratterizzate dalla presenza di idee fisse, che polarizzano ogni attenzione del soggetto, che non possono essere da lui allontanate e che possono costringerlo, irresistibilmente a tenere certe azioni. Componenti ossessive possono riscontrarsi in quelle situazioni compulsive, tradizionalmente chiamate monomanie, ma oggi non più denominate tali per la mutata convinzione che si tratti di disturbi non settoriali della psiche, ma coinvolgenti l'intera personalità; f) nevrastenie, caratterizzate da uno stato di stanchezza fisica e cerebrale, da incapacità di condurre a termine i propri impegni per facile esauribilità dell'azione volitiva, con presenza di disturbi fisici (cefalee, disturbi funzionali di organi, episodi di esaurimento. Per le nevrosi e psiconevrosi v., U. FORNARI, Trattato di psichiatria forense, III ed., Torino, 2004, cit., p. 288 ss.

14 Di non facile e controversa definizione sono pure le psicopatie, cui si tende ad attribuire il significato di grave e permanente anomalia del carattere (di natura costituzionale per alcuni ed ambientale per altri), che favorisce nello psicopatico, privo di sensi di colpa, di ansie e conflitti interiori, comportamenti di disturbo e di sofferenza per gli altri. V. a riguardo, DE MARSICO, Sui rapporti fra psicopatia e diritto penale, in Sc. pos., 1959, p. 10 ss.

15 Cass., Sez., I, 21 gennaio 1989, in CED Cassazione n.180234.

16 Cass., Sez., II, 21 maggio 1981, in Giust. pen., 1982, II, p. 334.

17 GRECO-CATANESI, Malattia mentale, cit., p. 8

18 BERTOLINO, L'imputabilità, cit., p. 633.

19 Cfr. sul punto ROMANO, in M. ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, III ed., Milano, 2005 cit., Art. 88/11; FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, cit., p. 300; MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 706; CRESPI, voce Imputabilità, in Enc. dir., vol. XX, Milano, 1970, cit., p. 773.

20 Cass., Sez. I, 30 aprile 1974, in Cass. pen., 1975, p. 1323; Cass., Sez. II, 4 maggio 1976, in Giust. pen., 1977, II, P. 163; Cass., Sez., I, 28 luglio 1980, in Cass. pen., 1981, p. 1223; Cass., Sez. V, 9 novembre 1984, ivi, 1986, p. 739.

21 GILBERTI-ROSSI, Manuale di psichiatria, Padova, 1999, cit., p.121.

22 V., per tutte, Cass. Sez I, 25.3.2004, Egger, in CED 2004/16940.

23 In questo senso v. ad es. , Cass. Sez. III, 13.2.1998, per la quale " perché ricorra il vizio parziale di mente non basta una qualsiasi deviazione della funzione mentale, ma occorre che la diminuzione delle facoltà intellettive e volitive dipenda da una alterazione patologica clinicamente accertabile, corrispondente al quadro clinico tipico di una determinata malattia".

24 Cass. Sez. V,29.11.1984, Algeri, in Cass. Pen. , 1986, 739.

25 In questo senso v., ad es. , Cass. Sez. I, 9.4.2003, De Nardo e a. , in CED 2003/19532, per la quale" il concetto di infermità mentale recepito nel nostro codice penale è più ampio rispetto a quello di malattia mentale, di guisa che, non essendo tutte le malattie di mente inquadrate nella classificazione scientifica delle infermità, nella categoria dei malati di mente potrebbero rientrare anche dei soggetti affetti da nevrosi e psicopatie, nel caso che queste si manifestino con elevato grado di intensità e con forme più complesse tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi".

26 Cass. Sez. I, 17.3.1986, Cattaneo, in Giust. Pen. , 1987, II, 688 e in Cass. Pen. , 1988, 601.

27 Cass. Sez. VI, 17.4.1997, Mariano, in Cass. Pen. , 1999, 2531; Cass. Sez. I, 2.7.1990, Salemi, ivi,1992, 66.

28 Trib. Milano, 8.11.2005. , in Corr. Merito, 2006, 2, 231.

29 Cass. Sez. VI, 13.7.2007, Strabuzzi, in Cass. Pen. ,2008, 587; Trib. Milano, 23.3.2006, in Foro ambros. , 2006, 146.

30 U. FORNARI, Trattato di psichiatria forense, cit., p.118

31 M.T. COLLICA, Vizio di mente: nozione, accertamento e prospettive, cit., p.120.

32 Si veda il punto 15 della sentenza.

33 Si veda il punto 17 della sentenza.

34 CRESPI, voce Imputabilità, in Enc. dir., vol. XX, Milano, 1970, cit., p. 763.

35 DE VINCENTIIS G. , Gli stati emotivi e passionali, vol. II, Roma 1974

36 FERRACUTI-GIARRIZZO, Stati emotivi, cit., p. 661.

37 MANTOVANI, Diritto penale, parte gen., p. 669.

38 FERRACUTI F., Psichiatria forense generale e penale, Milano 1990

39MANTOVANI, Diritto penale, parte gen., p. 670.

40 Cass., Sez. I, 2 marzo 1971, in Giust. pen., II, 1972, p.465

41 M.T. COLLICA, Il reo imputabile, cit., p.472.

42 Cfr. Cass. Pen., sez. I, 05 dicembre 1997, GIORDANO, in Cass. Pen., 1999, 156.

43 In tal senso v. ad es. Cass., Sez. V, 29 novembre 1984.

44 Si veda ad es. Cass., Sez. I, 5 maggio 1976, in Cass. pen., 1977, p. 839.

45 SANTOSUOSSO A., Le neuroscienze e il diritto, Pavia, 2009.

46 M.T. COLLICA, Il riconoscimento del ruolo delle neuroscienze nel giudizio imputabilità, in Dir, pen. con., cit., p.9

47 In tal senso, L. BOELLA, Neuroetica-La morale prima della morale, Milano, 2008, p.81.

48 Gip Como, 20 maggio 2011, in Guida al diritto (on line), 2011.

49 Trib. Como, Uff. G.i.p., giudice Lo Gatto, cit. p. 36.

Giuseppe Carpino
Materie trattate:: diritto civile, diritto di famiglia, diritto del lavoro, diritto condominiale, diritto del l'esecuzione, diritto penale
E-mail: giuseppecarpino_81@alice.it - Tel: 320.4827905
Indirizzo: Viale S.Panagia n. 136/C, 96100 Siracusa

Foto: 123rf.com
Altri articoli che potrebbero interessarti:
In evidenza oggi: