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Dark web: la Cassazione conferma il carcere

Per la Suprema Corte è corretta la custodia in carcere per tre indagati per associazione a delinquere operanti nel dark web che non hanno rivelato le credenziali di accesso agli inquirenti


di Annamaria Villafrate - La Cassazione con sentenza n. 10485/2020 (sotto allegata) conferma la custodia in carcere per tre soggetti che, operanti nel dark web, su piattaforma online, che vende armi e sostanze stupefacenti, si sono rifiutati di rivelare agli inquirenti le proprie credenziali di accesso. Chiaro quindi che le misure cautelari meno afflittive non sono in grado di scongiurare, anche alla luce del quadro indiziario emerso, il pericolo di reiterazione del reato.

Associazione a delinquere ex art. 416 c.p.

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Il Tribunale del riesame rigetta l'istanza di riesame avanzata nell'interesse di tre soggetti e conferma l'ordinanza del Tribunale che ha applicato agli stessi la misura della custodia in carcere in relazione al reato di associazione per delinquere previsto dall'art. 416 c.p. Detti soggetti sono stati accusati, perché con altri non identificati, con due nickname e con i ruoli rispettivi di amministratore e moderatore, aprendo una piattaforma attiva nel Dark web, hanno iniziato a gestire un market online (per la vendita di sostanze stupefacenti, di dati finanziari sottratti in modo abusivo, di documenti d'identità contraffatti, di prodotti industriali contraffatti, di armi da sparo e tanto altro), associandosi tra loro al fine di consumare una serie indefinita di delitti tutti aggravati dalla transazionalità della condotta.

I tre indagati, promotori e organizzatori dell'associazione, sono risultati anche comuni detentori delle credenziali di gestione del market quali "admin" alias in un luogo sconosciuto dal 2017 con condotta permanente e ancora in corso.

Ricorso in Cassazione per mancati arresti domiciliari

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I tre indagati ricorrono in Cassazione sollevando tre diversi motivi di doglianza.

Carcere per gli indagati che non rivelano le credenziali di accesso agli inquirenti

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La Cassazione con la sentenza n. 10485/2020 rigetta i ricorsi degli indagati per le seguenti motivazioni.

Il primo motivo è infondato, trattasi infatti non di reati connessi, come ipotizzato dagli indagati, ma di reati che rientrano piuttosto in un programma associativo. Come precisato dalla Corte di Cassazione, in piena contraddizione con le affermazioni degli indagati: "l'identità del disegno criminoso perseguito è idonea a determinare lo spostamento della competenza per connessione, sia per materia, sia per territorio, solo se l'episodio o gli episodi in continuazione riguardino lo stesso o – se sono più di uno - gli stessi imputati, giacché l'interesse di un imputato alla trattazione unitaria dei fatti in continuazione non può pregiudicare quello del coimputato a non essere sottratto al giudice naturale secondo le regole ordinarie della competenza. E nel caso di specie non vi è dubbio che gli episodi da porre eventualmente in continuazione non riguardano i medesimi indagati."

Inammissibile anche il secondo motivo. Nella fase delle indagini si è fatto ricorso a un agente sotto copertura autorizzato a concludere quattro diversi acquisti simulati grazie ai quali, attraverso l'impiego di telecamere e cassette postali si è giunti a identificare i soggetti coinvolti nel reato. In seguito sono state attivate intercettazioni telefoniche e ambientali da cui sono stati estratti passaggi emblematici di conversazioni da cui risultano palesi le ammissioni dei reati commessi.

Successivamente sono state compiute perquisizioni e sono stati effettuati sequestri di armi e sostanze stupefacenti a dimostrazione del fatto che, contrariamente a quanto sostenuto dagli indagati, gli stessi erano effettivamente in grado di procurarsi quanto offerto in vendita sulla piattaforma. Da questi elementi e dalla quantità di conversazioni intercettate emerge inoltre che i soggetti coinvolti avevano lo stesso ruolo e operavano con ruoli paritari, perché solidali nel gestire la piattaforma, come risulta dalle conversazioni da cui emerge la interscambiabilità dei tre con il semplice transfert delle credenziali dall'uno all'altro.

Manifestamente infondato infine anche il terzo motivo del ricorso. In relazione al profilo di doglianza che contesta l'eccessiva rigidità della misura cautelare, la Cassazione chiarisce che giustamente il Tribunale ha ritenuto che, stante la natura e le modalità con cui è stato commesso il reato "una misura meno afflittiva non sarebbe stata idonea a preservare dal pericolo di reiterazione di analoghe condotte criminose, tenuto conto, come rilevato dal Nucleo speciale tutela privacy e frodi della g.d.f di Roma del 13/09/2019, la piattaforma (…) sia ancora attiva, e che i ricorrenti, dotati di specifiche competenze informatiche, non abbiano voluto rivelare le credenziali di accesso alla piattaforma, credenziali che quindi, potrebbero continuare ad utilizzare anche in regime di arresti domiciliari mediante tramite computer o anche smartphone, strumenti facilmente reperibili anche in ambiente domestico".

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Data: 26/03/2020 17:00:00
Autore: Annamaria Villafrate