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Se l'avvocato manda il collega 'a ca…re', anche se alla fine dell'udienza, commette reato

La Cassazione conferma che è corretto fare riferimento al contesto nel quale la frase ingiuriosa è stata pronunciata ma ci sono limiti invalicabili


di Marina Crisafi – Non sisalva dalla condanna una donna avvocato che ha mandato un collega a “ca..re” alla fine dell'udienza. Per la Cassazione infatti non conta che l'ingiuriasia stata proferita quando entrambi erano spogliati del loro ruolo didifensori, né l'assenza di ragioni idonee a far alterare l'imputata e adindurla a proferire l'espressione contestata.

Con la sentenza n. 19070/2015 pubblicata ieri, la quinta sezione penale ha ritenuto “assolutamente lineare” il percorsomotivazionale seguito dal giudice di pace di Olbia che ha condannato la professionista al pagamento della multa di 400 euro per aver offeso l'onore di un altroavvocato. Nessuna illogicità rileva in particolare la S.C. dallamotivazione che ha fondato la responsabilità dell'imputata sulle univoche dichiarazioni della persona offesae di un terzo avvocato, legato alla persona offesa soltanto da un rapportodi colleganza, svalutando invece le contrarie affermazioni del teste “a favore” della professionista inragione del concreto rapporto professionale esistente tra i due.

Quanto allaconfigurabilità del reato di cui all'art. 594 c.p., hanno sottolineato gliErmellini, anche se in generale per verificare se sia stato leso l'onore dellapersona offesa, occorre “fare riferimentoa un criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità dell'offesoe dell'offensore e al contesto nel quale la frase ingiuriosa sia stata pronunciata,esistono tuttavia limiti invalicabiliposti dall'art. 2 Cost. a tutela della dignità umana, di guisa che alcunemodalità espressive sono oggettivamente(e dunque per l'intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestanoe/o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario) da considerarsi offensive e quindiinaccettabili in qualsiasi contesto pronunciate, tranne che sianoriconoscibilmente utilizzate ioci causa”.

Per cui, ai finidella sussistenza dell'ingiuria, si prescinde dall'animus nocendi e il dolo èconfigurabile “senza necessità di unaparticolare dimostrazione qualora l'espressione usata sia autonomamente emanifestamente offensiva tale in definitiva da offendere con il suo significatounivoco la dignità della persona”.

Non regge,quindi, la distinzione introdotta dalla ricorrente che l'espressione fupronunciata non nel corso dell'udienzama dopo che la stessa era terminata, giacchè la puntualizzazione “oltre a non elidere la portata offensivadella frase comunque non coglie l'evidente nesso funzionale tra la frase e ilprecedente svolgimento dell'attività difensiva.”

Non regge neanchela tesi dell'”equivoco percettivo”, avallatadal cancelliere nel verbale della deposizione, secondo la quale, per ben duevolte, l'avvocato avesse pronunciato lafrase “ma che gare”, il cuisignificato non solo rimane incomprensibile nel contesto di cui si discute,ma hanno concluso i giudici del Palazzaccio, la professionista imputata non si è neanche preoccupata di specificare.

Data: 08/05/2015 18:30:00
Autore: Marina Crisafi