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Cassazione: Dare del “pregiudicato” a un collega è diffamazione... anche se lo è realmente

È quanto emerge dalla sentenza n. 475 depositata l'8 gennaio 2015 con cui la Cassazione conferma la condanna di un Avvocato che aveva dato del pregiudicato a un collega


L'uso del termine “pregiudicato” può integrare reato di diffamazione, anche se lo stesso è indirizzatoad un soggetto che è già statocondannato con sentenza definitiva.

È quanto emerge dallasentenza n. 475 depositata l'8 gennaio2015 con la quale la quinta sezione penale della Cassazione ha confermato la condanna per il reato di diffamazionenei confronti di un avvocato ritenuto colpevole di avere offeso, comunicandocon più persone, la reputazione di un collega, definendolo, più volte, “pregiudicato”.

A nulla sono valse le doglianzedel professionista imputato circa il fatto che la parte offesa fosse stataeffettivamente condannata, con sentenza irrevocabile, per reato di diffamazionea mezzo stampa in un procedimento penale direttamente collegato a quello civile,nel quale lo stesso imputato assisteva una delle parti in causa, funzionale adottenere la liquidazione del danno conseguito dal detto reato. Né, tantomeno, l'invocataesimente dell'esercizio del diritto di manifestare il proprio pensiero in formadi critica e/o asserzione di verità, senza distinzionedi appartenenza ad una qualsiasi categoria, in presenza dei requisiti dellaverità del fatto, dell'interesse pubblico alla sua conoscenza e dellacontinenza formale.

Quanto alla reiterazione del termine,si doleva infine, l'imputato la stessa era dipesa dallo svolgimento dellapolemica in aula e non poteva far venir meno la base di verità e la suapertinenza al giudizio civile in corso.

Per la Corte, tutte, le doglianze sono infondate.

Confermando quanto statuito dalgiudice d'appello, il quale non aveva affatto ritenuto leaffermazioni offensive una “meraargomentazione tecnica riferita alla quantificazione del danno (oggettodella causa civile patrocinata dall'avvocato imputato), nell'ambito diesposizioni di dati tecnici finalizzati a stabilire se e quanto fosserisarcibile il danno”, bensì una “reazione”all'accoglimento da parte del giudice delle richieste formulate dallacontroparte (moglie della parte offesa e componente del medesimo studioprofessionale), la S.C. ha ritenuto che le frasi pronunciate dall'imputatoavessero “scopo puramente denigratorio,per evidenziare la pochezza giuridica e umana della collega, qualecomponente di uno studio professionale diretto dal pregiudicato”. Pertanto, ilreiterato epiteto, pur “realmentecorrispondente al singolo capitolo della biografia giudiziaria delconvenuto“, non poteva essere inquadrato nel tessuto del procedimento civile incorso e nel rapporto dialettico tra le parti, ma era finalizzato ad esprimereil suo significato deteriore e usato “perimporre un marchio di stigmatizzazione generale - non solo al “colpevole”come cittadino e professionista – ma atutto il metodo lavorativo dell'organizzazione professionale da lui diretta”.

In ordine all'esercizio di manifestare liberamente ilproprio pensiero in forma di critica e/o di asserzione di verità, haconcluso, infine, la Corte rigettando il ricorso, lo stesso “va comunque contemperato con l'esigenza,sancita dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, di evitare che il cittadino che si trovi nella condizione personalee sociale di persona processata e/ocondannata divenga, in maniera indenne, perennebersaglio del discredito dei consociati. Il richiamo all'attenzione dei cittadinidi un evento screditante quale è una condanna penale deve razionalmente esserecompiuto in un contesto che consenta alla rievocazione di interveniredirettamente nella sincronia degli eventi in corso e di suscitare necessaria epertinente reazione nei destinatari”.

Data: 12/01/2015 16:30:00
Autore: Marina Crisafi