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L'eccessiva durata dei processi civili, un problema cronico irrisolvibile?



Di Casimiro Mondino

Ogni volta che il discorso verte sul tema della giustizia, la durata interminabile del processo civile è senza dubbio l'argomento portante, il principale elemento rilevato di disfunzionalità del sistema.

Da molte parti si avanzano continuamente richieste o proposte per risolvere quello che sembra essere il problema cronico più grave, modificando i codici e le procedure.

Ma siamo sicuri che la lunga durata dei processi sia un problema di sistema, di metodo e di dottrina, ovvero siamo sicuri che si debba cambiare la giustizia italiana per ottenere processi più brevi?

Questa breve riflessione propone un punto di vista assolutamente personale, che potrà essere non condiviso, ma che si basa sull'osservazione di eventi reali e non di affascinanti proposizioni teoriche ad alto contenuto etico-dottrinale.

Personalmente ritengo che moltissime disfunzionalità della giustizia siano da individuare in comportamenti errati ed imprecisi dei singoli operatori, in forme di approssimazione inopportune, che vorrei illustrare sinteticamente in punti che a mio giudizio sono fondamento essenziale del ritardo cronico e dell'inefficienza della giustizia italiana:



le sentenze, ovviamente si applicano, ma il farvi ricorso con sistematicità ossessiva nei processi snatura i fondamenti del diritto stesso;

inoltre ci si deve domandare come mai si citano continuamente ed a profusione sentenze di legittimità o di merito, nell'apparente intento di utilizzarle ha scopo illustrativo e chiarificatore, e non si citano parimenti saggi, conferenze o relazioni al fine di chiarire le proprie posizioni interpretative;

in realtà il giudice non può decidere oltre i limiti della domanda perché lo impone l'articolo 112 c.p.c., ma sempre il codice civile chiarisce con grande semplicità che il giudice nel pronunciarsi sulla causa deve seguire le norme del diritto o pronunciarsi secondo equità;

quindi mentre le domande le pongono l'attore o il convenuto, mentre le procedure le svolgono i difensori, le norme di diritto che si devono applicare al processo ed in base alle quali il giudice si deve pronunciare sono nella sola disponibilità del giudice;

le proposte normative avanzate dalle parti non devono essere tenute in considerazione dal giudice, il quale deve decidere applicando le norme del diritto in totale autonomia perché è addirittura la Costituzione ad imporlo con l'articolo 101 che recita:

La giustizia è amministrata in nome del popolo.

I giudici sono soggetti soltanto alla legge.

Quindi i giudici non sono soggetti alle ipotesi od alle proposte normative delle parti, ma solo alle domande ed ai fatti allegati che le parti pongono al giudice per il tramite dei difensori, ed il giudice ha il dovere (art. 183 c.p.c.) di accertarsi di quali siano le reali intenzioni delle parti, infatti l'articolo recita:

“Nell'udienza di trattazione...il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”


si pensi che malgrado le modifiche apportate dalla legge 69/2009 in molti tribunali giudici ed avvocati continuano a ritenere normale e legittima la fissazione di udienza ex 281 sexies, che è udienza di pronuncia di sentenza orale, per pronunciarsi sulle mere questioni di competenza malgrado le modifiche al codice di procedura impongano per tale pronuncia l'utilizzo dell'ordinanza nel minor tempo possibile;

la consuetudine è agevolmente rilevabile eppure il legislatore ha chiarito che le competenze si devono presentare e pronunciare nel minor tempo possibile, infatti con la modifica degli articoli succitati, ha imposto una precisa tempistica che prima non era presente nel previgente articolo, ovvero ha:

Ora se le eccezioni di competenza devono essere presentate entro l'udienza ex 183 c.p.c., se non è necessario pronunciarsi sulle competenze con sentenza ma è sufficiente un'ordinanza, per quale ragione il giudice non dovrebbe pronunciarsi entro la prima udienza disponibile, ovvero l'udienza ex 184 c.p.c., ma dovrebbe arrivare all'udienza istruttoria, fissare una nuova ed ulteriore udienza per decidere delle sole competenze?

Non vi è motivo, dopo la modifica degli articoli 38 e 279 c.p.c., il giudice che deve pronunciarsi sulle sole competenze lo deve fare entro e non oltre l'udienza ex 184 c.p.c.;

infatti i documenti da presentare sono indicati nell'articolo 4 comma 6 e nell'articolo 5 comma 9 della legge 898/70 e si parla sempre e solo delle ultime dichiarazioni dei redditi senza indicazioni numeriche di sorta, mentre si impone la consegna di tutta la documentazione necessaria a stabilire il patrimonio personale delle parti ed il patrimonio dei coniugi;

infatti tale convinzione è addirittura contraria alle norme vigenti perché l'articolo 5 comma 9 della legge 898/70 impone che in caso di contestazione, durante l'udienza presidenziale, “il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull'effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”;

e sempre l'articolo 88 c.p.c. impone addirittura che “in caso di mancanza dei difensori a tale dovere, il giudice deve riferirne alle autorità che esercitano il potere disciplinare su di essi”, se queste disposizioni venissero applicate con rigore i processi non si snellirebbero?

si tratta di istanze introdotte per accelerare la durata dei procedimenti eppure sono provvedimenti pressoché sconosciuti;

l'istanza 186-bis, ad esempio, è un'istanza che per norma di diritto può essere proposta, su istanza di parte, fino al momento della precisazione delle conclusioni, ovvero la norma non limita ne proibisce di ripresentare tale istanza in un qualunque fase del procedimento o di ripresentarla in diversi momenti del procedimento, eppure è un'istanza quasi totalmente disapplicata;

sarebbe interessante poter disporre di statistiche che illustrino quante volte vengono presentate istanze di applicazione di provvedimenti utili a ridurre i tempi del procedimento e quante volte vengono accolti, la mia personale ipotesi è che siano totalmente disapplicati e senza che se ne possa comprendere la reale ragione;

infatti si avvia una causa civile per ottenere il ripristino di un danno patrimoniale, quindi il primo interesse del cliente ed il principale diritto del cliente è il vedersi riconoscere nel minor tempo possibile il danno con l'ottenimento del denaro;

se la giustizia produrrà questo ripristino patrimoniale in tempi accettabili, se applicherà seriamente e severamente le sanzioni per lite temeraria e per attività dilatoria, aumenterà il ricorso ai professionisti forensi ma al tempo stesso si ridurrà il numero dei procedimenti, perché verrà meno la convenienza di procedere con il processo;

in merito alla nuova formulazione dell'articolo 115 c.p.c., recita:

Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.”

Cosa intende il legislatore per “I fatti non specificamente contestati”?

mentre in italiano il significato di contestare è “negare, contrastare, mettere in dubbio la validità o legittimità di qualche cosa”, quindi è evidente che la traduzione in un italiano meno aulico dell'articolo 115 c.p.c., è la seguente:

“Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti giuridici proposti dall'attore di cui il convenuto non ha specificamente contrastato la validità giuridica, la legittimità”

Per cui se il convenuto non presenta fatti giuridici o diritti azionabili utili a paralizzare le pretese avversarie, i fatti presentati dal convenuto devono essere assunti come provati;

dovrebbe essere evidente che la mancanza di contestazione specifica non ha nulla a che vedere con la formulazione linguistica della contestazione proposta dal convenuto ma ha a che vedere con la sostanza giuridica di tale contestazione;

tutte situazioni che nella pratica corrente e reale dovrebbero essere quasi sistematicamente applicate perché sono innumerevoli i procedimenti che si fondano su mere difese dilatorie e temerarie;

anche in questo caso non, credo esista una statistica che fornisca dati precisi su quante richieste di applicazione degli articoli succitati siano state avanzate e quante siano state accolte, ma la mia personale ipotesi è che anche questi provvedimenti, indispensabili a riportare la giustizia in un corretto alveo di normalità, siano sostanzialmente disapplicati;

Quindi, applicando alla lettera il disposto dell'articolo 82 c.p.c., trasposto in italiano corrente risulta che le parti agiscono in giudizio con la presenza ed il servizio di un difensore;

non vi è possibilità che il difensore possa assumere il controllo e la totale autonoma gestione del processo, questo significa che il difensore deve svolgere tutte quelle attività specialistiche che la parte non è in grado di svolgere, il difensore deve individuare i diritti azionabili, mediare traducendo in termini tecnici le richieste della parte e quando fosse necessario, porsi come “traduttore” tra la parte ed il giudice, ma per nessuna ragione il difensore può sostituire integralmente la parte;

ne tanto meno il giudice si può permettere, come invece sembra essere consuetudine ricorrente, di rivolgersi sistematicamente ed esclusivamente al difensore quando la parte sia presente;

a tale proposito è fondamentale ricordare che l'articolo 183 c.p.c. statuisce ai commi 2 e 3 quanto segue:

Nella stessa udienza l'attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto.”

da questi commi risultano chiaramente due aspetti:

questo problema non è ascrivibile ai singoli individui ma alla formazione accademica ed al sistema delle abilitazioni, se si vuole rendere l'agire in giudizio parte integrante del quotidiano si deve garantire la qualità del servizio, ovvero si deve garantire al cliente di ottenere la reintegrazione totale dei danni subiti, per farlo servono operatori che non abbiano solo competenze teoriche ma che abbiano dimostrato nei fatti di saperle utilizzare nel quotidiano del lavoro con efficacia ed efficienza;

per cui sarebbe molto più utile che il praticantato avvenisse in due parti:

ognuno di questi periodi di prova deve essere assoggettato ad una valutazione di merito riportata su un libretto specifico, come avviene per i medici, e deve produrre, se superata positivamente, l'autorizzazione ad operare in autonomia, fin tanto che questo tirocinio non viene concluso positivamente si deve poter lavorare in qualità di collaboratore con compensi stabiliti per legge e tali da garantire la dignità dell'avvocato;

lo stato spende 300 miliardi per la sanità e meno di 4 miliardi per la giustizia è una vergogna che non può essere tollerata oltre;

personalmente ritengo che, dato l'altissimo numero di professionisti forensi, dati gli alti costi di gestione, data la concreta impossibilità di accedere alla difesa che il nostro sistema sviluppa nei fatti, si potrebbe pensare molto seriamente a procedere con la creazione di una magistratura difensiva pubblica in grado di operare sia come avvocatura pubblica sia come struttura di supporto integrativo a pieno supporto della magistratura quando fosse necessario, in cui inserire tutti quei professionisti che pur volendo vivere facendo la professione forense, non vogliano trasformarsi in imprenditori (perché tutte le attività professionali sono inevitabilmente attività imprenditoriali);

Queste sono brevi ed incomplete riflessioni personali, che non vogliono assurgere a disamina scientifica dei problemi della giustizia ma che nascono da esperienze dirette, personali e quotidiane che, per come sono state vissute, non possono essere ridotte a mere esperienze soggettive, quindi sono riflessioni serie di limiti e problemi reali che oggi inficiano la giustizia e ne riducono l'efficacia funzionale.

Ritengo che si possa intervenire strutturalmente con interventi relativamente semplici, poco onerosi ma comunque molto efficaci e mi auguro che questo si possa fare molto ma molto in fretta.

Oggi la giustizia non ha alcun valore sociale reale perché non garantisce prevedibilità del risultato, tempi utili a conseguirlo e garanzia del diritto.

Vorrei fornire un ultimo piccolo spunto di riflessione, quando si svolge un lavoro l'indeterminatezza del risultato è, nel mondo del lavoro normale, sempre segno di incapacità e comporta sempre una perdita di capacità reddituale, qualunque lavoro si faccia, più è difficile ottenere il risultato e più si è legittimamente pagati. Oggi questo principio non vale per la giustizia e finché non verrà corretto la giustizia sarà una componente sociale problematica inefficiente e praticamente incostituzionale.

Non si deve dimenticare che se un diritto non è accessibile o viene garantito attraverso la discriminazione sociale quel diritto non esiste.

Casimiro Mondino

Data: 29/01/2014 16:10:00
Autore: Casimiro Mondino