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L'attuazione dei diritti civili alla luce dell'ordinamento italiano e dell'ordinamento russo. ( Avv. Luisa Camboni - Giurista Dottor Alexander Gusev)



La passione per il diritto, la curiosità di conoscere diverse realtà giuridiche per, poi, individuarne affinità e differenze con l'ordinamento giuridico che disciplina la vita sociale del mio Paese, l'Italia: ecco cosa giustifica la scelta dell'argomento che intendo esaminare. E, ancor di più, incoraggiata dalla conoscenza - anche se non diretta - con il giurista russo Dottor Alexander Gusev di Mosca.
L'attuazione del diritto rappresenta un argomento di notevole interesse all'interno di ogni ordinamento che rispetti la tutela dei diritti fondamentali della persona. Cercherò, quindi, con un linguaggio piano ed accessibile al quisque de populo di far capire quando l'attuazione del diritto (diritto soggettivo) è violata, per, poi, individuare affinità e differenze con l'ordinamento russo. Il cittadino, che ha ragione o ha torto, ha diritto di comprendere perché ha ragione o ha torto, anche se è ignaro di diritto.
Che cosa si intende per diritto soggettivo?
Il diritto soggettivo attribuisce al suo titolare una posizione di vantaggio che questi potrà far valere nei confronti di tutti i soggetti, in questo caso si parla di diritto soggettivo assoluto (erga omnes), oppure nei confronti di uno o più soggetti nell'ambito di un determinato rapporto giuridico, in questo caso si parla di diritto soggettivo relativo (actio in personam).
Un esempio di diritto soggettivo assoluto è il diritto di proprietà che consente al suo titolare di agire nei confronti di tutti i soggetti che ne turbino eventualmente il godimento.
Un esempio di diritto soggettivo relativo, invece, è dato dalla posizione giuridica e dai poteri dei soggetti che sono parte di un contratto. In virtù della loro partecipazione possono esercitare vari poteri tra cui quello di agire in caso di mancato adempimento nei confronti l'uno dell'altro.
Il diritto soggettivo sarebbe, dunque, la facoltà accordata dal diritto oggettivo a un singolo individuo di pretendere una determinata condotta da altri soggetti, ovvero la garanzia normativa di una utilità (bene, prestazione) sostanziale e diretta a favore del soggetto titolare. In ogni caso, può dirsi che il diritto soggettivo rappresenta il massimo grado di tutela di un interesse individuale. Sul concetto di diritto soggettivo ritengo interessante riportare la posizione di F. Santoro – Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, p.77 secondo cui “il diritto soggettivo arriva fin dove comincia la sfera d'azione della solidarietà: quindi gli atti emulativi e gli altri non rispondenti alla buona fede o alla correttezza, come contrari alla solidarietà, non rientrano nel contenuto del diritto soggettivo, non costituiscono abuso […]; al contrario ne sono fuori, costituiscono un eccesso dal diritto, e, in quanto tali, s'intende agevolmente che possano essere illeciti”.
Da sempre, sia dottrina che giurisprudenza hanno discusso sui limiti che l'autonomia privata incontra al fine di consentire un pieno godimento da parte di ciascuno dei propri diritti.
Il dibattito ha interessato i diversi settori del diritto: diritto civile; diritto commerciale; diritto societario; diritto del lavoro…e, da ultimo, anche, il diritto tributario.
Il leit motiv della discussione è quello di individuare gli strumenti che siano in grado di neutralizzare, congelare le conseguenze lesive sui diritti dei terzi.
Punto di partenza di questa questione è rappresentato dalla figura dell' “abuso del diritto” allo scopo di riavvicinare il diritto alle esigenze dei cittadini. Solitamente, quando si ricorre al termine abusivo si vuole indicare tutta una serie di condotte e operazioni che presentano un disvalore al cospetto dell'ordinamento giuridico.
Analizzando l'etimologia del termine abuso (dal latino abusus da ab uti: usare male) può dirsi che si è in presenza di un abuso del diritto, ovvero di uso anormale del diritto, quando la condotta in concreto posta in essere da un soggetto esce fuori dalla sfera del diritto soggettivo esercitato, ponendosi in contrasto con gli scopi etici e sociali per cui il diritto è riconosciuto e tutelato dall'ordinamento giuridico. Un tale comportamento abusivo costituirebbe, dunque, un illecito e andrebbe sanzionato secondo le norme generali di diritto previste.
In altre parole con l'espressione abuso del diritto si tende ad indicare quelle ipotesi nelle quali un comportamento, che formalmente integri gli estremi dell'esercizio del diritto soggettivo, debba ritenersi sulla base di criteri non formali di valutazione, priva di tutela giuridica, o illecito.
Va osservato che il Legislatore Italiano non ha previsto alcuna norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. Questo perché? Perché la cultura giuridica degli anni '30 riteneva che l'abuso del diritto fosse più che un concetto giuridico un concetto morale, con la conseguenza che chi poneva in essere un comportamento anormale veniva considerato meritevole di biasimo, non di sanzione giuridica. In un secondo tempo, cioè con la nascita del moderno diritto privato, il concetto morale di abuso del diritto è andato via via scemando per lasciare spazio ad una nozione di contenuto propriamente giuridico. Nozione giuridica che poggia sul principio per il quale l'esercizio di qualsivoglia diritto soggettivo debba ritenersi, in via generale, sottoposto al divieto di abuso. Pur non essendo prevista alcuna norma generale sull'abuso del diritto, come già anticipato, la vigenza del divieto dell'abuso del diritto, nel nostro ordinamento come principio generale, è possibile desumerla in diverse norme specifiche: art. 1015 c.c. abuso del diritto di usufrutto; art. 330 c.c. abuso della potestà genitoriale…
Sul punto, unanime giurisprudenza ha precisato che sussiste abuso del diritto ogni qualvolta si è in presenza di “un uso oggettivamente anormale del diritto” inteso come contrasto con i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico.
Altri, invece, ritengono che si ha abuso del diritto quando un soggetto utilizza i poteri e le facoltà di cui è titolare al fine di perseguire un interesse differente rispetto a quello per cui sono stati conferiti.
L'abuso del diritto costituisce, a parere di chi scrive, un uso alterato, anormale dello schema formale del diritto, volto al raggiungimento di finalità diverse da quelle consentite dal Legislatore. Finalità che se contrarie alla legge debbono essere sanzionate per garantire il principio fondamentale del “Neminem laedere”.
La figura dell'abuso del diritto differisce dalla figura dell'abuso della libertà contrattuale. L'abuso della libertà contrattuale è intesa come scorretto esercizio della stessa. A questo punto è bene aprire una breve parentesi sul concetto di libertà o autonomia contrattuale intesa, sia in senso negativo sia in senso positivo.
In senso negativo sta a significare che nessun soggetto può essere privato dei propri beni o costretto ad effettuare prestazioni a favore di un soggetto prescindendo dalla sua volontà.
In senso positivo sta a significare che le parti, mediante un atto di volontà, possono costituire, regolare o estinguere rapporti patrimoniali. In altre parole la libertà/autonomia contrattuale consiste nella libertà di concludere o meno un contratto. E, ancora, la libertà contrattuale va intesa anche come libertà di determinare il contenuto del contratto .
L'art. 1322 c.c. ”Autonomia contrattuale” così dispone: “ Le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico.”
Da tale disposizione si desume che l'autonomia contrattuale altro non è che un chiarimento del più generale principio dell'autonomia privata che consente ai privati di autoregolamentare i propri interessi personali e patrimoniali mediante negozi giuridici.
Il nostro ordinamento riconosce valore vincolante, id est forza di legge, ai precetti stabiliti dai privati, purché nel rispetto delle norme imperative, dell'ordine pubblico e del buon costume. L'autonomia contrattuale ha un ampio significato; essa va intesa come libertà di: concludere o meno il contratto, scegliere la persona del contraente, stabilirne il contenuto e concludere contratti atipici.
Libertà contrattuale significa, anche, libertà di scegliere liberamente la persona del contraente: in questa ipotesi il Legislatore ha posto dei limiti. A titolo di esempio si pensi alla cosiddetta prelazione legale prevista a favore di determinati soggetti che meritano di essere preferiti rispetto a terzi.
E, ancora, la libertà contrattuale, intesa nel nostro ordinamento come libertà di determinare liberamente il contenuto del contratto, si pone in netta antitesi rispetto alla tendenza del Legislatore Comunitario che, invece, mira a determinare in modo dettagliato il contenuto del contratto, a tutela della parte debole del rapporto contrattuale.
Se focalizziamo la nostra attenzione sulla Legislazione Comunitaria è evidente la diversa tecnica legislativa adottata, cioè le norme indicano gli elementi che devono contenere i contratti, ciò al fine di evitare l'abuso della libertà contrattuale che può realizzarsi anche in una disparità di posizione contrattuale tra le parti.
Quanto alla libertà di concludere contratti atipici, cioè contratti che non sono già previsti e regolati dalla legge, è sottoposta, oltre al limite del rispetto delle norme imperative, anche a quello della meritevolezza di tutela degli interessi. La dottrina e la giurisprudenza prevalente ritengono, difatti, meritevoli di tutela i contratti che perseguono interessi socialmente utili e tendono a tipizzare i contratti atipici, individuando nel loro interno gli elementi di contratti tipici; al riguardo, si parla di contratti misti, nei quali concorrono gli elementi di più contratti tipici che si fondono in un'unica causa (si pensi, ad esempio al contratto con il quale una banca mette a disposizione una cassetta di sicurezza: si trovano fuse la causa del contratto di deposito e del contratto di locazione).
Nel nostro Paese ricade nel concetto di abuso del diritto l'intenzione di nuocere.
Brocardo latino di riferimento è il “Neminem laedere” : espressione che sintetizza il principio in base al quale tutti sono tenuti al dovere generico di non ledere l'altrui sfera giuridica. Chi scrive ritiene che si tratta di un principio ad ampio raggio che include altre figure previste nel nostro ordinamento ed espressamente disciplinate; figure tutte volte a consentire una corretta attuazione del diritto. Si pensi al dovere di correttezza ex art. 1175 c.c.; il dovere di buona fede che accompagna l'intero iter che porta alla conclusione del contratto art. 1337 c.c….
Parte della dottrina ritiene la figura de qua come uno strumento di “police” del diritto inteso in un duplice significato:
- da un lato consente la verifica dell'uso che un soggetto fa dei propri diritti, sanzionando così l'eventuale utilizzo illegittimo;
- dall'altro consente di individuare il giusto metro, la giusta misura di ogni diritto in relazione all'ordinamento giuridico.
Si ritiene, infatti, che il principio del “Neminem laedere” assolve ad una funzione di notevole importanza, ossia alla funzione di limite dei singoli diritti per permetterne un'armoniosa coesistenza in seno all'ordinamento giuridico.
Un altro limite di ordine generale contemplato nel nostro ordinamento è la frode alla legge.
Il Legislatore, difatti, all'art. 1344 c.c., intitolato "Contratto in frode alla legge", stabilisce che “la causa si reputa illecita quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa.”
Al riguardo, autorevole dottrina, già da tempo ha, con molta chiarezza, sostenuto che l'art. 1344 del c.c. deve essere inteso come espressione di un principio generale antifrode applicabile in più settori dell'ordinamento e, più precisamente, ogni qual volta vengano posti in essere negozi o operazioni che, pur rispettando la lettera della legge, ne violino lo spirito nella sostanza.
La summenzionata norma appare, dunque, applicabile sia in caso di elusione, che in caso di evasione di imposta, sia in caso di violazione di norme proibitive, che in caso di violazione di norme imperative materiali (quali sono anche le norme sostanziali tributarie).
Si ha, in particolare, frode alla legge quando formalmente si rispetta un comando legislativo, ma, sostanzialmente, se ne viola il contenuto.
Sull'argomento è bene precisare che la simulazione fraudolenta, posta in essere per eludere norme imperative, determina nullità sia del negozio simulato che di quello dissimulato.
Tali concetti sono stati, poi, recepiti dalla giurisprudenza di legittimità.
Sul punto, i Giudici di Piazza Cavour hanno, infatti, stabilito la nullità assoluta dei contratti affetti da difetto di causa; difetto di causa da intendersi come mancanza di uno scopo (lecito) delle operazioni poste in essere (vedasi Cass. Civ. sentenza n. 20398 del 21 ottobre 2005 e ssentenza n. 22932 del 14 novembre 2005).
Con la sentenza n. 20398 del 21 ottobre 2005, la Cassazione ha, poi, asserito la sussistenza di simulazione di contratti e, quindi, la loro nullità per frode alla legge, ex art. 1344 c.c..
Con la pronuncia del 5 maggio 2006, n. 10353, infine, la Cassazione ha affermato che la valutazione del carattere abusivo ed elusivo dell'operazione economica spetta al giudice di merito che ne deve dare motivazione logica e adeguata. Questo perché?
Perché è insito in qualsiasi ordinamento che mira a tutelare l'attuazione dei diritti il principio in base al quale nessuno possa avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme giuridiche.
In altri termini, la frode alla legge funziona come clausola generale di tipizzazione delle condotte tenute in violazione di norme imperative. Per mezzo di essa e a seguito del combinato disposto della norma imperativa speciale che pone il divieto e della norma imperativa generale che sanziona la frode (art. 1344 c. c.), sono tipizzate non solo le violazioni dirette del precetto imperativo, ma, anche, le elusioni, gli aggiramenti, le violazioni mediate e indirette, non apparenti e occulte del medesimo.
Al lettore è bene puntualizzare che la frode alla legge, di cui all'art. 1344 c.c., non ha nulla a che vedere con la frode ai terzi e con la frode ai creditori ( art. 2901 c.c.).
Quanto alla figura della frode ai terzi, per meglio capire, si pensi ad esempio alla compravendita di beni del minore ad un prezzo inferiore a quello reale, ciò quando l'autorizzazione è stata ottenuta dal giudice tutelare celandogli che un ‘autorizzazione era stata concessa, anteriormente, per un prezzo maggiore.
Si è in presenza, dunque, in tale ipotesi di un contratto illecito nei motivi tra il genitore e l'acquirente; difatti, il contratto è diretto ad assegnare al primo la differenza tra il prezzo stabilito dal giudice tutelare e quello realmente versato.
Si può, senza dubbio alcuno, affermare che anche la frode ai terzi lede i massimi dogmi che stanno alla base del nostro sistema giuridico, vale a dire quei principi ed esigenze etiche che costituiscono la morale sociale. In ordine alla tutela di terzi pregiudicati da un contratto stipulato in frode agli stessi, il nostro codice nulla prevede. Questa carenza ha reso necessario l'intervento della Giurisprudenza.
I maggiori studi in ordine a tale istituto, infatti, ci giungono dalle pronunce giurisprudenziali, unanimi nel sancire una netta differenza, strutturale e di disciplina, tra contratto in frode alla legge e contratto in frode ai terzi.
Per quanto riguarda il contratto in frode alla legge, l'ordinamento predispone un apposito rimedio per i contratti che costituiscono, ai sensi dell'art. 1344 c.c., mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa. In tali casi la causa del contratto risulterà illecita, ex art. 1343 c.c., ed il contratto nullo ai sensi dell'art. 1418, 2° comma c.c.. Il contratto in frode alla legge, quindi, risulta tipizzato dal legislatore, il quale ne sancisce la nullità per causa contraria a norma imperativa (rectius: elusiva di norma imperativa) e, per questo, illecita.
Nulla di tutto ciò è previsto per il contratto in frode ai terzi. In questa ipotesi, infatti, l'”intentio fraudis” è rivolto a terzi e non ad eludere una norma imperativa per la quale il Legislatore sancisce, come in precedenza affermato, il grave rimedio della nullità. Il contratto in frode ai terzi, invece, seppur stipulato in danno di terzi, non viola una norma imperativa e non è contrario al buon costume o all'ordine pubblico, per cui non può risultare illecito ai sensi dell'art. 1343 c.c. e nullo alla stregua dell'art. 1344 c.c..
In ogni caso, pur non essendo previsto uno specifico rimedio per il terzo, nei cui confronti è stato stipulato un contratto dannoso, numerosi rimedi sono desumibili dal codice di volta in volta e in ragione del caso concreto.
Una delle più significative pronunce giurisprudenziali in materia, che ritengo sia bene segnalare, (Cass.,Civ., Sez. I, 29 maggio 2003 n. 8600), ha sancito, infatti, che “il negozio in frode alla legge è quello che persegue una finalità vietata dall'ordinamento in quanto contraria a norma imperativa o ai principi dell'ordine pubblico e del buon costume o perché diretta ad eludere una norma imperativa. L'intento di recare pregiudizio ad altri soggetti non rientra di per sé nella descritta fattispecie perché non si rinviene nell'ordinamento una norma che stabilisca in via generale, come per il primo tipo di contratto, l'invalidità del contratto stipulato in frode ai terzi, ai quali ultimi, invece, l'ordinamento accorda rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio che essi possano risentire dall'altrui attività negoziale”.

Da tale pronuncia si desume che potrà risultare nullo un contratto in frode ai terzi che sia, nel contempo, violativo di una norma imperativa, del buon costume o dell'ordine pubblico, ma, ove ciò non accadesse, vi sarebbero altri rimedi esperibili al fine di tutelare le ragioni del terzo tra questi il rimedio risarcitorio.
Quanto alla frode ai creditori, il Legislatore Italiano ha previsto come rimedio l'azione revocatoria ordinaria di cui all'art. 2901 c.c.: è l'azione che permette al creditore di far dichiarare inefficaci gli atti di disposizione che il debitore abbia compiuto in pregiudizio delle sue ragioni.
L'effetto dell'azione revocatoria non consiste, dunque, nella dichiarazione di nullità degli atti di alienazione compiuti dal debitore, ma nella dichiarazione di inefficacia, inefficacia non assoluta, ma relativa nel senso che l'atto di alienazione non che può essere opposto al solo creditore che ha agito, mentre nei riguardi del terzo acquirente e degli altri soggetti è perfettamente valido ed efficace.
Altri limiti previsti al fine di garantire la corretta attuazione del diritto sono: il divieto di concorrenza e l'abuso di posizione dominante nel mercato.
Quanto al divieto di concorrenza, il Legislatore del Codice Civile ha, infatti, previsto una serie di norme a tutela del datore-imprenditore a fronte della concorrenza e della divulgazione dei segreti e dei metodi produttivi da parte del lavoratore sia in corso di rapporto, sia alla cessazione dello stesso attribuendogli la facoltà eccezionale di poter comprimere, previo accordo tra le parti, il libero esercizio dell'attività professionale del lavoratore.
L' art. 2105 c.c. impone al prestatore l'obbligo di non fare (divieto di concorrenza e obbligo di riservatezza) e ciò in ossequio al dovere di fedeltà che è obbligazione accessoria a quella principale di lavorare. Altrettanta rilevanza ha l'art. 2125 c.c. che prevede il patto di non concorrenza quale estensione dell'obbligo di fedeltà al termine del rapporto di lavoro, proteggendo da un lato l'imprenditore da un'eventuale attività di concorrenza da parte dell'ex-dipendente e dall'altro il lavoratore imponendo la stipulazione del patto a limiti oggettivi; e, infine, l'art. 2596 c.c. del generale divieto di concorrenza applicabile al lavoratore autonomo, nonché l'art. 1751-bis che estende l'obbligo di non fare anche all'agente.
Ciò su cui lo scrivente vuole attirare l'attenzione è inerente al patto di non concorrenza di cui all'art. 2125 c.c., in base al quale il datore di lavoro, dopo la cessazione del rapporto di lavoro in essere, può limitare l'attività del prestatore, previo accordo tra le parti. Tale patto assume rilevanza e produce i suoi effetti solo se redatto in forma scritta, ad substantiam, ai sensi degli artt. 2125 e 1350 n. 13 c.c..
Codesta clausola pattizia sottostà alla pena di nullità, anche qualora non presenti il carattere dell'onerosità; al prestatore di lavoro, infatti, dev'essere riconosciuta un'indennità a titolo di corrispettivo a riconoscimento della limitazione dell'esercizio della propria attività lavorativa.
A sostegno di ciò, ritengo opportuno riportare una massima del Tribunale di Torino dell'anno 2000 che, così, testualmente, recita: “Il patto di non concorrenza è un contratto e, al pari di qualsiasi altro contratto, non può venir meno per volontà di una sola delle parti che l'hanno stipulato; la comunicazione, da parte del datore di lavoro, della liberazione del lavoratore dagli obblighi derivanti dal patto di non concorrenza è assolutamente inefficace”.

Data: 01/09/2013 11:00:00
Autore: Avv. Luisa Camboni