Vi siete separati? Il giudice vi ha appioppato l'esborso su base mensile di un bell'assegno (per l'ex, non per voi!) per mantenere la prole? Vi è capitato, causa crisi, di perdere il vostro lavoro, nonché unico mezzo di sostentamento e di pagamento dei suddetti alimenti?

Bene, anzi male, anzi malissimo. Dovrete pagare comunque. Perché, come ha stabilito la Cassazione, lo stato di disoccupazione non è sufficiente di per sé a scagionare un povero papà separato dal pagare ciò che spetta ai figli. La Corte Suprema ha ricordato infatti che "l'allegazione della sopravvenuta condizione di disoccupazione non esime da responsabilità", in base all'art. 570 c.p. Poiché "lo stato di disoccupazione non coincide necessariamente con l'incapacità economica e incombe pur sempre sull'imputato l'onere di allegazione di idonei e convincenti elementi sintomatici della concreta impossibilità di adempiere".

Prima di gridare allo scandalo e allo schifo, rammentiamo che esistono moltissimi (esagero? Forse basta "molti", o persino solo "alcuni") uomini che lavorano quasi per hobby, vantano possedimenti su tutto il suolo nazionale e poi, mai e poi mai, vivrebbero esclusivamente con il loro stipendio. La Cassazione ha sottolineato proprio la differenza tra restare senza posto di lavoro ed essere indigente; in mezzo ci può essere un bel patrimonio, o esserci un'altra o più fonti si reddito.

Questo pare essere il caso del signor F.R., padre marchigiano separato (non necessariamente in quest'ordine, ndr), che si è ritrovato in Cassazione per tentare di annullare la decisione del tribunale di Ancona. Tribunale che, nel lontano 2002, gli aveva imposto il pagamento di alimenti al figlio minore. Sulla base di tutto ciò che è stato precedentemente detto e riportato, la Sesta sezione penale della Suprema Corte ha convalidato la condanna per violazione degli obblighi di assistenza familiare nei confronti del signor F. R., dopo che era stato regolarmente denunciato dalla ex moglie per non aver corrisposto gli alimenti al figlio minorenne, nel periodo tra il giugno del 2003 e il maggio del 2008. Ben cinque anni scarsi, o sessanta mesi (fate vobis!), di nulla totale.

La Suprema Corte ha precisato che la Corte d'appello di Ancona, con sentenza del giugno 2010, aveva di fatto constatato che il signor F. R "lavorava e percepiva un regolare stipendio fino a quando ha convissuto con la moglie". E su questa base ha stabilito l'inammissibilità del ricorso.

Due considerazioni sorgono spontanee, dritte dritte dal cuore: Se vi sposate cercate sempre di avere un doppio impiego; Se non vi sposate è meglio!

Barbara LG Sordi
Email barbaralgsordi@gmail.it

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