Il danno alla professionalità, poiché danno conseguenza e non danno evento, non è suscettibile di valutazione in re ipsa e deve essere provato da parte del lavoratore. Poiché tale danno sussista è necessario, infatti, che si produca una lesione aggiuntiva ed autonoma, con riflessi sulle aspettative di progressione professionale, sulle abitudini di vita del lavoratore e sulle relazioni da lui intrattenute sostanziandosi in un'effettiva lesione della dignità personale del lavoratore. Proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione da parte del lavoratore, che deve precisare quali di essi ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi e le peculiarità della situazione di fatto. Non è quindi sufficiente prospettare l'esistenza della dequalificazione e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il Giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato e valendo il principio generale per cui il Giudice non può mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto. Questa pronuncia sottolinea l'inammisibilità di una duplicazione delle voci di danno rispetto alla stessa fonte causale attraverso diverse etichettature delle pretese risarcitorie. La Sez. lav. (Sentenza n. 20980/2009) ribadisce dunque l'orientamento espresso dalle Sez. Unite secondo cui le diverse categorie elaborate dalla dottrina e giurisprudenza (danno biologico, danno esistenziale
, danno da perdita del rapporto parentale….ecc) costituiscono una mera sintesi descrittiva dell'unica categoria concettuale esistente, quella cioè del danno non patrimoniale, il cui doveroso integrale risarcimento impone di tener conto, nella quantificazione, di ciascun pregiudizio (integrità psico-fisica, dignità della persona….ecc) ma senza duplicazioni.

Altri articoli che potrebbero interessarti:
In evidenza oggi: