L'intelligenza artificiale alla sbarra
Il caso in esame presenta tutti gli elementi di una perfetta tempesta giuridica: un ricorso "redatto col supporto dell'intelligenza artificiale" che si rivela essere un "coacervo di citazioni normative e giurisprudenziali astratte, prive di connessione con gli specifici titoli impugnati e che, pertanto, risultano in larga parte inconferenti". Il giudice non usa mezzi termini nel descrivere un atto processuale che tradisce ogni principio di tecnica redazionale e di logica argomentativa.
La condanna ex articolo 96, comma 3, del codice di procedura civile non rappresenta una sorpresa per chi conosce i meccanismi della responsabilità processuale aggravata. Quando il giudice accerta che "la ricorrente ha infatti agito in giudizio con malafede o, quantomeno con colpa grave", la sanzione pecuniaria di 500 euro in favore della cassa delle ammende diventa inevitabile conseguenza di un comportamento processuale censurato dalla legge.
Ma il vero insegnamento di questa vicenda va ben oltre la mera applicazione di una norma sanzionatoria. Siamo di fronte a un paradigma che interroga profondamente la deontologia professionale dell'avvocato nell'era digitale. L'intelligenza artificiale, strumento potentissimo di ausilio alla ricerca e all'elaborazione giuridica, si trasforma in un boomerang quando viene utilizzata senza il filtro critico della competenza professionale.
Il giudice torinese evidenzia con precisione chirurgica i vizi dell'atto: citazioni normative e giurisprudenziali "astratte, prive di ordine logico e in larga parte inconferenti, senza allegazioni concretamente riferibili alla situazione oggetto del giudizio". È il ritratto di una difesa che ha abdicato al proprio ruolo di mediazione intellettuale tra il dato normativo e il caso concreto, affidandosi ciecamente a un algoritmo incapace di discernimento giuridico.
La questione assume contorni ancora più preoccupanti se consideriamo che l'utilizzo dell'intelligenza artificiale nella redazione dell'atto non è stato celato, ma esplicitamente dichiarato. Una trasparenza che, lungi dal costituire attenuante, diventa aggravante di una condotta professionale inadeguata. È come se il professionista avesse rivendicato il diritto di delegare a una macchina le proprie responsabilità intellettuali.
L'errore fondamentale sta nell'aver confuso l'ausilio tecnologico con la sostituzione professionale. L'intelligenza artificiale può certamente supportare la ricerca giurisprudenziale, suggerire precedenti rilevanti, facilitare l'individuazione di norme applicabili. Ma non può, e non deve, sostituire il ragionamento giuridico, la capacità di sintesi, l'arte dell'argomentazione che costituiscono l'essenza stessa della professione forense.
Il parallelismo tracciato nella sentenza con le "usuali ricerche nelle banche dati comunemente e largamente utilizzate" è illuminante. Nessun avvocato si sognerebbe di copiare acriticamente i risultati di una ricerca su Dejure o Pluris, inserendoli nell'atto senza verificarne la pertinenza e l'attualità. Eppure, questo è esattamente ciò che sembra essere accaduto con l'utilizzo dell'intelligenza artificiale: una delega in bianco a uno strumento che, per quanto sofisticato, rimane privo della capacità di giudizio che solo l'esperienza e la competenza umana possono fornire.
La condanna non colpisce dunque la tecnologia, ma il modo in cui è stata utilizzata. È una condanna dell'acriticità, della superficialità, della rinuncia a quel controllo di qualità che dovrebbe essere il marchio distintivo di ogni prestazione professionale qualificata. L'avvocato che utilizza l'intelligenza artificiale senza verificarne i risultati, senza contestualizzarli, senza sottoporli al vaglio della propria competenza, tradisce non solo il cliente ma l'intera categoria professionale.
La sentenza del Tribunale di Torino diventa così un precedente prezioso, un faro che illumina i confini dell'utilizzo lecito e responsabile delle nuove tecnologie nell'esercizio della professione forense. Non si tratta di demonizzare l'innovazione, ma di governarla con saggezza e competenza.
L'intelligenza artificiale può essere un alleato formidabile dell'avvocato moderno, ma solo se utilizzata come strumento e non come sostituto del pensiero critico. La macchina può elaborare dati, individuare correlazioni, suggerire soluzioni, ma non può sostituire la capacità di giudizio, l'intuizione giuridica, la sensibilità per le sfumature del caso concreto che rimangono prerogative insostituibili dell'intelligenza umana.
La lezione che emerge da questa vicenda è chiara: l'avvocato del futuro non sarà quello che rinuncia alla tecnologia, ma nemmeno quello che si affida ciecamente ad essa. Sarà il professionista capace di integrare gli strumenti digitali nella propria cassetta degli attrezzi senza mai dimenticare che la responsabilità ultima della prestazione professionale rimane sempre e comunque sua.
In un'epoca in cui l'intelligenza artificiale promette di rivoluzionare ogni aspetto della vita professionale, la sentenza torinese ci ricorda che alcune cose non cambiano mai: la competenza, la diligenza, la responsabilità professionale rimangono i pilastri insostituibili dell'esercizio della professione forense. La tecnologia può amplificarli, potenziarli, renderli più efficaci, ma non può mai sostituirli.
Il messaggio è rivolto non solo ai singoli professionisti, ma all'intera categoria: l'innovazione tecnologica è una risorsa preziosa, ma va governata con intelligenza e responsabilità. Solo così potremo evitare che l'intelligenza artificiale, da alleata, si trasformi in complice involontaria della nostra inadeguatezza professionale.
Avv. Erik Stefano Carlo Bodda è Avvocato del foro di Torino, iscritto all'Albo Speciale dei Cassazionisti e delle Giurisdizioni Superiori, è stato Abogado presso il Colegio de Madrid (ICAM) ed iscritto presso il Barreau de Paris.
E' fondatore dello studio legale BODDA & Partners.
"Il diritto, come la giustizia, è una conquista fragile che ogni generazione deve riconquistare. Nell'era dell'intelligenza artificiale, questa riconquista passa attraverso la riaffermazione dell'irrinunciabile valore dell'umano."
Autore: Erik Stefano Carlo Bodda