Uccisioni mirate
Nel panorama geopolitico contemporaneo assistiamo a un fenomeno inquietante che merita la più attenta riflessione giuridica: l'adozione sistematica delle cosiddette "uccisioni mirate" o targeted killings da parte di Stati che si proclamano democratici e rispettosi dello Stato di diritto.
Questa pratica, un tempo appannaggio esclusivo di regimi autoritari, ha trovato legittimazione presso democrazie consolidate come Stati Uniti e Israele, sollevando interrogativi fondamentali sulla tenuta dell'architettura giuridica internazionale.
L'erosione del monopolio statale della forza e il diritto alla vita.
La questione delle uccisioni mirate tocca il cuore stesso del diritto internazionale contemporaneo, ponendo in tensione principi fondamentali che hanno costituito per decenni i pilastri dell'ordine giuridico globale. Come osserva acutamente il Prof. Andreas Schüller, esperto di diritto penale internazionale intervistato dalla RSI, "gli omicidi mirati sono di gran lunga al di fuori del diritto internazionale. Sono una violazione dei diritti umani e costituiscono una mancanza di rispetto dello Stato di diritto in cui di solito le persone si arrestano, le si sottopone a un tribunale e si dimostrano le accuse".
Questa affermazione coglie nel segno un aspetto cruciale: le uccisioni mirate rappresentano una forma di giustizia sommaria che aggira completamente i meccanismi processuali che caratterizzano lo Stato di diritto. In tal senso, esse configurano quella che potremmo definire una "privatizzazione della giustizia penale" operata direttamente dagli apparati statali, che si arrogano il diritto di vita e di morte sui propri nemici senza alcun controllo giurisdizionale.
Il diritto alla vita, sancito dall'articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e dall'articolo 6 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, costituisce il fondamento inderogabile di ogni ordinamento giuridico civile. Come ha chiarito la Cassazione penale nella sentenza n. 34342 del 2024, "l'art. 2 della CEDU, dopo aver, al paragrafo 1, sancito la protezione del diritto alla vita ed il divieto di provocare volontariamente la morte di alcuno, al par. 2, lett. a), considera come non in contrasto con detto articolo la morte di una persona determinata 'da un ricorso alla forza reso assolutamente necessario'". La giurisprudenza convenzionale ha mostrato particolare rigore nell'interpretazione di questa eccezione, richiedendo che il ricorso alla forza sia "assolutamente necessario" e proporzionato.
Il paradigma della "guerra permanente" e la dissoluzione del diritto umanitario.
L'espansione delle uccisioni mirate si inserisce in un più ampio processo di trasformazione del concetto stesso di conflitto armato. La tradizionale distinzione tra tempo di pace e tempo di guerra, che ha costituito per secoli il fondamento del diritto internazionale umanitario, appare oggi sempre più sfumata. Come evidenziato dalla ricerca pubblicata su Diritti Comparati, "qualora l'impiego di droni armati ricada all'interno di un formale conflitto tra Stati non sussiste alcun problema dal punto di vista della conformità alle regole dello ius ad bellum. Diverso, invece, è il caso in cui essi vengano utilizzati 'in tempo di pace' per le uccisioni mirate di individui appartenenti a gruppi terroristici".
Questa distinzione è fondamentale per comprendere la portata della deriva in atto. Mentre nel contesto di un conflitto armato formalmente dichiarato le uccisioni di combattenti nemici trovano legittimazione nel diritto internazionale umanitario, l'estensione di tali pratiche al di fuori di tale contesto configura una violazione sistematica del diritto internazionale dei diritti umani. Come precisato dalla dottrina specializzata, "in tempo di pace si applica il diritto internazionale dei diritti umani che proibisce ogni azione di omicidio mirato condotto da uno Stato verso qualsiasi individuo a meno che l'uso della forza non rispetti i principi di necessità, proporzionalità e immediatezza del pericolo".
La tecnologia come moltiplicatore di impunità.
L'avvento della tecnologia dei droni ha rappresentato un acceleratore formidabile di questa deriva. Come emerge dall'inchiesta di The Intercept, la politica statunitense di uccisioni mirate "soffre di un eccesso di fiducia nei mezzi elettronici e digitali di intelligence, con un bilancio di vittime civili apparentemente incalcolabile – dovuto alla preferenza per l'uccisione piuttosto che alla cattura – e soffre dell'incapacità di ottenere informazioni potenzialmente di grande valore dalle persone sospettate di terrorismo".
Questa osservazione mette in luce un aspetto particolarmente inquietante: la tecnologia non solo facilita l'esecuzione di uccisioni extragiudiziali, ma crea anche un'illusione di precisione e legittimità che maschera la sostanziale arbitrarietà di tali operazioni. I cosiddetti "signature strikes", attacchi condotti sulla base di pattern comportamentali piuttosto che sull'identificazione certa del bersaglio, rappresentano l'apice di questa deriva. Come documentato da CyberLaws, "secondo le analisi delle forze statunitensi all'interno dell'edificio colpito si sarebbero dovuti trovare dei membri di Al-Quaeda", ma l'attacco ha invece causato la morte del cooperante italiano Giovanni Lo Porto.
La violazione della sovranità territoriale e il consenso dello Stato.
Un aspetto spesso trascurato nel dibattito sulle uccisioni mirate riguarda la loro dimensione di violazione della sovranità territoriale degli Stati. Come osservato dalla dottrina internazionalistica, "è difficile ammettere la possibilità di condurre un conflitto o eseguire singole missioni implicanti l'uso della forza letale sul territorio di uno Stato straniero senza il consenso – almeno implicito – di quest'ultimo". Tuttavia, anche quando tale consenso sussista, permangono dubbi sulla sua validità giuridica, "tenuto conto che lo stesso consenso all'uccisione di un terrorista da parte delle autorità dello Stato territoriale potrebbe risultare in linea di principio giuridicamente invalido, ove si consideri il diritto alla vita – e, correlativamente, il divieto di uccisioni arbitrarie – protetto, nel suo nucleo essenziale, da norme generali di natura imperativa e, quindi, insuscettibili di deroga convenzionale".
Questa considerazione tocca un punto nevralgico del diritto internazionale contemporaneo: l'esistenza di norme imperative (ius cogens) che non possono essere derogate nemmeno dal consenso degli Stati interessati. Il diritto alla vita, in quanto diritto fondamentale della persona umana, appartiene indiscutibilmente a questa categoria di norme, come confermato dalla giurisprudenza italiana in materia di crimini di guerra.
La giurisprudenza italiana e i crimini internazionali.
La giurisprudenza italiana ha fornito contributi significativi alla definizione dei limiti giuridici delle uccisioni extragiudiziali. La sentenza del Tribunale di Novara n. 50 del 2022 ha chiarito che "l'uccisione di civili mediante rappresaglia, consistente nella fucilazione di ostaggi in risposta ad atti di resistenza, integra un crimine di guerra e contro l'umanità secondo i principi di diritto comuni a tutte le nazioni civili". Questa affermazione, pur riferita a fatti storici, mantiene piena attualità nel contesto delle uccisioni mirate contemporanee.
Particolarmente significativa è l'osservazione del Tribunale secondo cui tali crimini violano "norme internazionali di ius cogens" e che "l'omicidio della popolazione civile costituisce crimine di guerra e contro l'umanità anche ai sensi degli artt. 7 e 8 dello Statuto della Corte Penale Internazionale". Come precisato dalla normativa italiana, i crimini di guerra sono definiti dall'articolo 8 dello Statuto di Roma, che vieta espressamente "il lanciare deliberatamente attacchi nella consapevolezza che gli stessi possano causare perdite di vite umane, lesioni alla popolazione civile".
L'immunità degli Stati e la responsabilità per crimini internazionali.
Un aspetto cruciale emerso dalla giurisprudenza italiana riguarda i limiti dell'immunità statale quando si tratti di crimini internazionali. La Cassazione penale nella sentenza n. 43696 del 2015 ha affermato che "sussiste la giurisdizione del giudice penale italiano in relazione alla domanda risarcitoria avanzata nei confronti dello Stato straniero, quale responsabile civile, per i crimini di guerra commessi da appartenenti alle sue forze armate", richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 238 del 2014 che ha stabilito "la soccombenza del principio di immunità degli Stati per gli atti compiuti 'iure imperii' rispetto al diritto di agire in giudizio per la difesa dei diritti inviolabili degli uomini".
Questo orientamento giurisprudenziale assume particolare rilevanza nel contesto delle uccisioni mirate, in quanto stabilisce che gli Stati non possono invocare l'immunità dalla giurisdizione quando i loro atti configurino crimini internazionali. Come chiarito dalla Cassazione, "tenuto conto della centralità dei diritti fondamentali della persona per il nostro ordinamento, la circostanza che per la tutela dei diritti inviolabili delle vittime di un crimine internazionale sia preclusa la piena verifica giurisdizionale rende sproporzionato il sacrificio di principi costituzionali".
La legittima difesa e i suoi limiti nel diritto interno.
Per comprendere appieno la portata delle violazioni rappresentate dalle uccisioni mirate, è utile confrontarle con i rigorosi limiti che il diritto interno pone all'uso della forza letale, anche in situazioni di legittima difesa. L'articolo 52 del Codice penale stabilisce che "non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa".
La giurisprudenza di legittimità ha precisato che anche nell'ambito della legittima difesa domiciliare, dove la legge prevede presunzioni di proporzionalità, "gli altri presupposti della scriminante (attualità del pericolo e necessità della reazione difensiva) devono essere sempre accertati caso per caso", come stabilito dalla Cassazione penale nella sentenza n. 19065 del 2020. La Corte ha inoltre chiarito che "l'uso di un'arma, legittimamente detenuta, rappresenta reazione sempre proporzionata" solo "a patto che il pericolo dell'offesa ad un diritto personale o patrimoniale sia attuale e che l'impiego dell'arma sia concretamente necessario".
Questi principi, elaborati per situazioni di autodifesa tra privati, evidenziano per contrasto l'arbitrarietà delle uccisioni mirate statali, che prescindono completamente dai requisiti di attualità, necessità e proporzionalità che il diritto richiede anche nelle situazioni più estreme.
Il terrorismo e la risposta dello Stato di diritto.
Il fenomeno del terrorismo internazionale ha indubbiamente posto sfide inedite agli ordinamenti giuridici contemporanei. La legislazione italiana definisce come "condotte con finalità di terrorismo" quelle che "per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un'organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici". Tuttavia, la risposta a tali minacce deve rimanere nell'alveo dello Stato di diritto.
Come osservato dalla Corte d'appello di Torino nella sentenza n. 325 del 2023, anche in contesti caratterizzati da "uccisioni illegali o arbitrarie, comprese uccisioni extragiudiziali da parte delle forze di sicurezza", la comunità internazionale mantiene l'obbligo di garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali. L'esistenza di minacce terroristiche non può giustificare l'abbandono dei principi che distinguono uno Stato democratico da un regime autoritario.
La giurisdizione penale internazionale e i conflitti armati.
Un aspetto particolarmente complesso riguarda l'esercizio della giurisdizione penale in contesti di operazioni militari multinazionali. La Corte d'assise di Roma nella sentenza n. 21 del 2008 ha chiarito che "in presenza di conflitti armati o di operazioni militari condotte da forze multinazionali in territorio straniero sotto l'egida dell'ONU, trova applicazione il principio consuetudinario di diritto internazionale della 'legge di bandiera' che attribuisce giurisdizione penale esclusiva allo Stato di appartenenza del militare autore del reato".
Tuttavia, questo principio non può essere invocato per sottrarre alla giustizia gli autori di crimini internazionali. Come precisato dalla stessa Corte, tale giurisdizione esclusiva "rimane tale anche quando lo Stato competente decida di non esercitare l'azione penale secondo il proprio ordinamento interno", ma ciò non può comportare l'impunità per crimini che violano norme imperative del diritto internazionale.
Verso una nuova architettura giuridica internazionale"
La proliferazione delle uccisioni mirate da parte di Stati democratici pone interrogativi fondamentali sul futuro dell'ordine giuridico internazionale. Come osservato dalla dottrina specializzata, "al di fuori di questi parametri, tali uccisioni potrebbero benissimo essere considerate dei crimini di guerra, alla luce di quanto previsto dall'art. 8 dello Statuto della Corte penale Internazionale".
La questione che si pone è se assistiamo a una trasformazione evolutiva del diritto internazionale, che gradualmente legittima pratiche un tempo considerate illegali, o se invece ci troviamo di fronte a una sistematica violazione di principi fondamentali che richiede una ferma reazione della comunità internazionale. La risposta a questo interrogativo determinerà il futuro stesso dello Stato di diritto a livello globale.
Il ruolo della comunità internazionale e delle organizzazioni sovranazionali.
In questo contesto di crescente erosione dei principi giuridici fondamentali, assume particolare importanza il ruolo delle organizzazioni internazionali e degli Stati che mantengono un approccio rispettoso del diritto internazionale. Come evidenziato dalla posizione della Svizzera, che ha criticato pratiche che "violano il diritto internazionale", è necessario che gli Stati democratici mantengano una posizione ferma nella difesa dei principi giuridici fondamentali.
L'articolo 11 della Costituzione italiana stabilisce che "l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni".
Questo principio costituzionale impone all'Italia di opporsi a pratiche che minano l'ordinamento giuridico internazionale, anche quando poste in essere da Stati alleati.
Conclusioni: il bivio della civiltà giuridica.
Le uccisioni mirate rappresentano molto più di una questione tecnico-giuridica: esse incarnano una scelta di civiltà che determinerà il futuro dell'umanità. La decisione di alcuni Stati democratici di adottare sistematicamente tali pratiche segna un punto di non ritorno nella storia del diritto internazionale, aprendo la strada a un mondo in cui la forza prevale sul diritto e dove la giustizia sommaria sostituisce il processo.
Come giuristi e come cittadini di Stati democratici, abbiamo il dovere di opporci a questa deriva con tutti gli strumenti che il diritto ci mette a disposizione. La battaglia per la legalità internazionale si combatte innanzitutto nelle aule di tribunale, dove coraggiosi magistrati come quelli che hanno pronunciato le sentenze qui richiamate continuano a affermare la supremazia del diritto sulla ragion di Stato.
Il mondo che stiamo costruendo per le future generazioni dipende dalle scelte che facciamo oggi. Possiamo scegliere di accettare passivamente la trasformazione degli Stati democratici in macchine di morte extragiudiziale, oppure possiamo riaffermare con forza che la civiltà giuridica non è negoziabile e che il diritto alla vita rimane il fondamento inviolabile di ogni società che aspiri a definirsi civile.
In questo cinico mondo dove sempre più sembra vigere la legge del più forte, la voce del diritto deve risuonare più alta che mai. Perché, come ci insegna la storia, quando il diritto tace, è la barbarie che parla.
Erik Stefano Carlo Bodda è Avvocato del foro di Torino, iscritto all'Albo Speciale dei Cassazionisti e delle Giurisdizioni Superiori, è stato Abogado presso il Colegio de Madrid (ICAM) ed iscritto presso il Barreau de Paris.
Ha partecipato in qualità di osservatore a missioni internazionali. E' fondatore dello studio legale BODDA & PARTNERS.
Data: 02/10/2025 07:00:00Autore: Erik Stefano Carlo Bodda