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Non si può licenziare chi parla male del capo su WhatsApp

Non è licenziabile per la Cassazione, il dipendente che in una conversazione privata in chat parla male dei principali, le modalità infatti non risultano diffusive e lesive


Licenziamento per chi sparla dei datori su WhatsApp?

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La Cassazione accoglie il ricorso di un dipendente, licenziato perché, tra l'altro, ha parlato male dei capi su WhatsApp con un altra persona. La conversazione però, come ha correttamente rilevato la Corte di Appello, è rimasta limitata a un contesto puramente privato, senza alcuna intento diffusivo. Risolto questo punto però, la sentenza cassata deve essere rinviata alla Corte di Appello competente in diversa composizione, affinché valuti se la condotta del dipendente possa rientrare tra quelle che prevedono l'applicabilità della misura conservativa. Il giudice infatti può interpretare in modo elastico l'addebito. Queste in sintesi le conclusioni della Cassazione contenute nella sentenza n. 11665/2022 (sotto allegata).

La vicenda processuale

Il dipendente di una S.p.A. ricorre in Tribunale per contestare la legittimità del licenziamento irrogato a causa di una contestazione disciplinare relativa a tre episodi tra i quali figura, l'aver denigrato e criticato i responsabili della società datrice. Il Tribunale accoglie la richiesta del dipendente e condanna la società datrice a pagare un'indennità risarcitoria pari a 20 mensilità retributive.

Con sentenza successiva, giudicando in sede di opposizione, il tribunale annulla il licenziamento, dispone la reintegra del lavoratore e condanna la società a pagare un'indennità risarcitoria.

La datrice solleva reclamo verso il provvedimento e la Corte di Appello accoglie in parte la richiesta, dichiarando risolto il rapporto di lavoro e condannando la società a pagare al lavoratore un'indennità pari a 20 mensilità. Per la Corte la conversazione in chat del lavoratore con la collega non rileva dal punto di vista disciplinare. Analizzando poi il contenuto del contratto collettivo di lavoro, ritiene che le ipotesi contemplate dalle disposizioni risultano assai generiche e indefinite. In esse non possono rientrare quindi le contestazioni sollevate al dipendente. Precisa inoltre che la giurisprudenza considera la tutela reintegratoria del lavoratore come ipotesi residuale, occorre inoltre, ai fini della sua applicazione, che la condotta punibile sia tipizzata nello specifico con previsione della sanzione conservativa.

Gravità della condotta ostacola la conservazione del rapporto

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Il dipendente, nel ricorrere in Cassazione solleva i seguenti motivi di doglianza:

La società da parte sua, nel ricorso incidentale critica lo scarso rilievo attribuito alla condotta del dipendente relativa alla conversazione chat con la collega, tenuto conto delle frasi utilizzate, del ruolo apicale del dipendente e della volontà denigratoria. Lamenta inoltre la valutazione della Corte di appello in relazione alle condotte contestate al dipendente, caratterizzate da volontarietà e gravità tali da comportare il venir meno del vincolo fiduciario della datrice nei suoi confronti.

La condotta "può" rientrare tra quelle che contemplano la conservazione

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La Cassazione nel decidere sul ricorso incidentale della società in relazione alla condotta contestata al dipendente della conversazione in chat, rileva la correttezza delle valutazioni della Corte di Appello. Occorre infatti tenere conto del contesto in sui le frasi denigratorie verso i responsabili della società sono state pronunciate. Trattavasi infatti di una conversazione privata, fuori dall'ambiente di lavoro, senza contatto alcuno con altri colleghi, in un ambito completamente estraneo all'ambiente di lavoro. Neppure il mezzo utilizzato attribuisce alla condotta una potenzialità lesiva, perché tutto è avvenuto in forma privata con conversazioni telefoniche e chat. Il contenuto della conversazione, anche se discutibile, si è realizzato in una modalità quindi che ne esclude un intento diffusivo e quindi lesivo.

Passando poi a esaminare il ricorso principale del lavoratore la Cassazione rileva come, a seguito della legge Fornero, diversi sono i livelli di tutela accordati al lavoratore, illustrandoli nel dettaglio.

Per quanto riguarda quindi la correttezza o meno della tutela applicabile al lavoratore che ha commesso illeciti disciplinari, la Cassazione, nell'accogliere il ricorso del lavoratore, sancisce il seguente principio: "in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300 del 20 maggio 1970, come novellata dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l'illecito con sanzione conservativa anche laddove tale previsione sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Tale operazione d'interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo."

Alla Corte di appello competente in diversa composizione il compito quindi, questa volta, di "verificare se le condotte contestate al lavoratore potessero o meno configurare quella lieve irregolarità nell'adempimento, l' esecuzione del lavoro senza la necessaria diligenza, una sua esecuzione con negligenza grave o, ancora, una omissione parziale di esecuzione della prestazione che l'art. 101 del c.c.n.l punisce con sanzioni conservative via via più gravi dal rimprovero scritto fino alla sospensione e, se del caso, applicare la tutela prevista dal comma 4 dell'art. 18 dello statuto."

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Data: 14/04/2022 07:00:00
Autore: Annamaria Villafrate