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Cannabis Light una storia italiana

Le varie inchieste naufragate, una riflessione da giurista


Prologo di una battaglia giuridica

Viviamo tempi singolari, in cui il diritto si trova a fronteggiare l'ideologia, e la magistratura è chiamata a fare da argine contro derive normative che tradiscono i principi fondamentali dello Stato di diritto. La vicenda della cannabis light in Italia rappresenta, in questo senso, un caso paradigmatico: un settore economico da centinaia di milioni di euro, migliaia di posti di lavoro, un'intera filiera agricola e commerciale nata e cresciuta nella legalità, improvvisamente messa al bando da un decreto governativo che ha tentato di cancellare con un tratto di penna ciò che la legge aveva costruito con pazienza e ragionevolezza.

Ma i giudici, quelli che ogni giorno si confrontano con i fatti e con il diritto vivente, hanno iniziato a dire no. E lo hanno fatto con una serie di pronunce che, negli ultimi due anni, hanno letteralmente smontato l'impianto repressivo del decreto sicurezza, restituendo dignità giuridica a un comparto che il legislatore aveva tentato di criminalizzare con un colpo di spugna ideologico.

La grande inchiesta torinese: finita nel nulla.

Partiamo da casa nostra, da Torino. Due anni or sono, era partita una maxi-inchiesta che aveva coinvolto quattordici persone tra produttori e commercianti, con il sequestro di ben due tonnellate di infiorescenze per un valore stimato di diciotto milioni di euro. Un'operazione che aveva fatto tremare l'intero settore piemontese, che dopo la normativizzazione del 2016 era diventato la seconda regione italiana per export di cannabis light in Europa.

Eppure, a settembre del 2025, quella maxi-inchiesta si è conclusa con un nulla di fatto. Il giudice ha disposto dissequestri e nessuna imputazione, prendendo atto della liceità sostanziale dei prodotti privi di efficacia psicotropa. La formula utilizzata è stata chiara: "perché il fatto non sussiste". Non un'archiviazione tecnica, non un proscioglimento per insufficienza di prove. Il fatto non sussiste. Significa che quelle due tonnellate di cannabis, quel commercio, quell'attività imprenditoriale erano leciti. Punto.

Il decreto sicurezza: un colpo di piccone alla legalità.

Il decreto sicurezza del Governo Meloni ha rappresentato un tentativo di mettere al bando un intero settore economico attraverso un meccanismo tanto semplice quanto devastante: equiparare le infiorescenze di canapa agli stupefacenti indipendentemente dai livelli di THC, creando un automatismo punitivo che prescindeva dalla verifica dell'efficacia drogante.

Il punto critico del decreto risiede proprio qui: nell'aver ignorato il principio di offensività in concreto, cardine del diritto penale costituzionale. Non basta che una legge definisca "droga" una qualsiasi sostanza. È necessario provarlo concretamente. È necessario dimostrare, con accertamenti scientifici, che quella specifica sostanza, in quella specifica quantità, sia in grado di produrre un effetto drogante rilevabile.

Il decreto ha tentato di aggirare questo principio fondamentale, introducendo un divieto assoluto che ha paralizzato un comparto da centinaia di milioni di euro. Aziende fallite, posti di lavoro persi, investimenti bruciati. E tutto questo non per combattere il crimine organizzato o tutelare la salute pubblica, ma per un'ideologia proibizionista che non trova riscontro né nella scienza né nel diritto.

L'incertezza dei produttori: un settore nel limbo.

Mentre le sentenze si accumulano, un'intera filiera rimane nell'incertezza. Il Piemonte, che dopo la normativizzazione del 2016 era diventato la seconda regione italiana per export di cannabis light in Europa, ha visto crollare il proprio settore. Gli imprenditori agricoli, che avevano investito capitali e risorse umane in un'attività ritenuta lecita, si sono trovati improvvisamente criminalizzati.

Il paradosso è evidente: da un lato, la legge 242 del 2016 aveva regolamentato la coltivazione della canapa per finalità agricole e industriali; dall'altro, il decreto sicurezza ha tentato di cancellare tutto questo, ignorando che migliaia di persone avevano costruito la propria attività economica nel rispetto delle regole.

L'incertezza normativa ha prodotto effetti devastanti. Sequestri senza preventive analisi. Arresti senza verifiche sulla percentuale di THC. Accertamenti sull'efficacia drogante condotti con metodi empirici o addirittura omessi. Un intero settore lasciato in balia di interpretazioni contraddittorie, con procure che sequestrano e tribunali che dissequestrano, in un balletto giudiziario che ha distrutto la fiducia degli operatori economici.

La risposta della magistratura: il diritto contro l'ideologia.

Ma i tribunali hanno iniziato a dire no. E lo hanno fatto richiamando un principio giuridico fondamentale, che il decreto sicurezza aveva tentato di aggirare: l'offensività in concreto.

La pietra miliare di questo orientamento giurisprudenziale è rappresentata dalla storica sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 30475 del 2019, che ha tracciato la linea di demarcazione tra legalità e illegalità nella commercializzazione dei derivati della cannabis. Quella pronuncia ha affermato che la cessione, la vendita e la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa integrano il reato solo quando tali derivati non siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività.

Questo principio, che potrebbe apparire ovvio a chi conosce i fondamenti del diritto penale, è stato sistematicamente ignorato dal decreto sicurezza, che ha tentato di introdurre un automatismo punitivo fondato sulla mera presenza di infiorescenze, indipendentemente dalla loro capacità di alterare l'assetto neuropsichico dell'utilizzatore.

La Cassazione penale, sentenza n. 10049 del 13 marzo 2025, ha ribadito con cristallina evidenza che ai fini della configurabilità del reato è necessario dimostrare con assoluta certezza che il principio attivo contenuto nelle dosi destinate allo spaccio sia di entità tale da poter produrre in concreto un effetto drogante, non essendo sufficiente la mera percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza ceduta.

Le sentenze che hanno fatto la differenza.

Negli ultimi due anni, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito con costanza questi principi, smontando pezzo per pezzo l'impianto del decreto sicurezza.

La Cassazione penale, sentenza n. 26516 del 5 luglio 2024, ha confermato che la legge 242 del 2016 qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune per le finalità tassativamente indicate, ma ha anche ribadito che la commercializzazione integra il reato solo salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa.

La Cassazione penale, sentenza n. 32152 del 26 settembre 2025, ha ulteriormente precisato che la disciplina contenuta nella legge 242 del 2016 riguarda un settore dell'attività agroalimentare ontologicamente estraneo dall'ambito dei divieti stabiliti dal Testo Unico Stupefacenti, ma ha anche chiarito che la commercializzazione può integrare il reato solo quando sia verificata la concreta offensività del fatto e la capacità drogante della sostanza.

Anche la Cassazione penale, sentenza n. 31229 del 19 luglio 2023, ha ribadito che il quantitativo di principio attivo illecitamente detenuto va determinato facendo riferimento alla quantità complessiva della sostanza sequestrata, ma sempre salvo che tali derivati siano in concreto privi di ogni efficacia drogante o psicotropa secondo il principio di offensività.

Riflessioni di un avvocato: tra diritto e filosofia.

Da avvocato che da anni si occupa di queste tematiche, non posso non riflettere sulla profonda contraddizione che attraversa il nostro ordinamento. Da un lato, abbiamo una legge, la 242 del 2016, che ha tentato di regolamentare un settore agricolo e commerciale con finalità economiche e di sviluppo. Dall'altro, abbiamo un decreto sicurezza che ha tentato di cancellare tutto questo con un colpo di spugna, ignorando i principi fondamentali del diritto penale.

Ma la vera questione non è solo giuridica. È filosofica. È la questione del rapporto tra Stato e cittadino, tra potere e libertà, tra ideologia e ragione. Il proibizionismo, in tutte le sue forme, è sempre stato figlio della paura e dell'ignoranza. E la cannabis light, con le sue percentuali infinitesimali di THC, rappresenta il caso paradigmatico di un proibizionismo che ha perso ogni contatto con la realtà.

Come osservatore attento del panorama italiano, non posso che constatare come il decreto sicurezza abbia rappresentato un tentativo di imporre una visione moralistica della società, ignorando che il diritto penale deve punire le condotte effettivamente offensive, non quelle che offendono solo la sensibilità di chi governa.

La rotta: verso un diritto penale della ragione.

Quale rotta, dunque, per uscire da questo labirinto" La risposta è semplice, ma richiede coraggio politico e onestà intellettuale. Serve un diritto penale della ragione, non dell'ideologia. Serve un diritto penale che punisca le condotte effettivamente offensive, non quelle che offendono solo la sensibilità morale di chi governa.

Le sentenze degli ultimi due anni dimostrano che il decreto sicurezza è un provvedimento sbagliato, che non regge al confronto con i principi costituzionali e con il diritto vivente. I tribunali hanno preso a colpi di piccone una normativa ideologica, ricordando che, in uno Stato di diritto, nessuno può essere punito per una condotta che non sia concretamente offensiva di un bene giuridico tutelato.

Serve una normativa chiara, che distingua tra ciò che è effettivamente pericoloso e ciò che non lo è. Serve un diritto penale che punisca le condotte offensive, non quelle che offendono solo la sensibilità di chi governa. Serve, in una parola, ragione.

Conclusioni: il ruolo della magistratura come ultimo baluardo.

La storia della cannabis light in Italia è la storia di un settore nato nella legalità, cresciuto nel rispetto delle regole, e poi messo al bando da un decreto ideologico che ha ignorato scienza, diritto ed economia. Ma è anche la storia di una magistratura che, pur tra mille contraddizioni e difficoltà, ha saputo dire no all'arbitrio e sì al diritto.

In questo scenario, la magistratura ha svolto e continua a svolgere un ruolo fondamentale. Non si tratta di attivismo giudiziario, come qualcuno vorrebbe far credere. Si tratta di applicazione del diritto. Si tratta di ricordare che, in uno Stato di diritto, nessuno può essere punito per una condotta che non sia concretamente offensiva di un bene giuridico tutelato.

Da avvocato, da cittadino, da osservatore attento del panorama italiano, non posso che auspicare un cambio di rotta. Il decreto sicurezza è stato preso a colpi di piccone da decine di tribunali italiani, che hanno ricordato al legislatore che il diritto penale non può essere strumento di imposizione ideologica, ma deve rimanere ancorato ai principi di offensività, proporzionalità e ragionevolezza.

Perché, come diceva Seneca, «Non possiamo dirigere il vento, ma possiamo orientare le vele». E in questo mare in tempesta, i giudici hanno scelto di orientare le vele verso il diritto, la scienza e la ragionevolezza. Contro ogni vento proibizionista.

Avv. Erik Stefano Carlo Bodda
Foro di Torino

Data: 10/11/2025 07:00:00
Autore: Erik Stefano Carlo Bodda