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Taekwondo: niente casco negli allenamenti, il coach risponde di lesioni colpose



“L'allenatorediuna disciplina sportiva è titolare di una posizione di garanzia, ai sensi dell'art. 40 cod. pen., comma 2 a tutela della incolumità degli atleti,sia in forza del principio del "neminemlaedere", sia, quando ci si trovi di fronte ad una attività da qualificarsi pericolosa, aisensi dell'art. 2050 cod. civ.”.

Èil principio affermato dalla quarta sezione penale della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 31734 del 18 luglio 2014, chiamataad intervenire in una vicenda riguardante l'allenatoretecnico della nazionale italiana di Tae Kwon Doper imputato del reato di cui all'art. 590 c.p. per aver omesso, conimprudenza, imperizia e negligenza, di far indossare ad un atleta, durante gliallenamenti, il caschetto di protezione,con la conseguenza che questi, scivolando, riportavagravissime lesioni fisiche con postumi permanenti.

Condannatoin primo grado dal giudice di pace di Roma, in secondo grado il Tribunalecapitolino dichiarava invece non doversi procedere in ordine al reato ascritto,poiché estinto per intervenutaprescrizione, disponendo a carico dell'imputato, in solido con la F.I.T.A.,il pagamento di una provvisionaleimmediatamente esecutiva (oltre alla condanna al risarcimento del danno infavore della parte civile da liquidarsi in separata sede davanti al giudicecivile). Il coach e la F.I.T.A. ricorrevano per Cassazione chiedendo lasospensione dell'efficacia esecutiva della disposta provvisionale.

Pergli Ermellini, “posto che l'attivitàsportiva del "taekwondo"(benché non assimilabile alle disciplinequalificabili come "sport estremi" ovvero all'automobilismo od almotociclismo od all'alpinismo) ècomunque attività pericolosa, in ragione dei coessenziali rischi perl'incolumità fisica degli atleti, dalla stessa derivanti deve affermarsi che laposizione di garanzia di cui l'allenatoreè investito implichi la sicura imposizione di porre in atto quanto è possibile per impedire il verificarsi di eventilesivi per coloro che praticano detto sport”.

Névale ad escludere la responsabilità del coach, il fatto che tali specifichecautele non fossero espressamente contemplate dal regolamento federale “ove le condizioni in cui l'allenamento sisvolgeva, aggravino i rischi per la salute e l'incolumità degli atleti”.

Condividendo,pertanto, le statuizioni della sentenza impugnata che ha correttamenteevidenziato come la tipologia dell'allenamento in atto prevedeva un violento contatto fisico fra gli atleti (sia puredi minore intensità rispetto al combattimento vero e proprio) e pertanto riproduceva sostanzialmente lo stessodinamismo che contraddistingue la gara, con conseguente necessità dell'adozione di quelle stessemisure precauzionali- caschetto, corazza ecc. - prescritte dal regolamentofederale” nonché prendendo atto delle dichiarazioni dei testi (di accusa edifesa) che hanno deposto “nel senso chel'utilizzo del casco protettivo costituisce misura ordinariamente adottatanello svolgimento di allenamenti del genere di quello di cui trattasi”, la Corte ha pertanto rigettato ogni censura, annullando lasentenza limitatamente alla condanna dell'imputato alla rifusione delle spesesostenute dalla parte civile nel giudizio di appello con rinvio al giudicecivile competente.

Data: 27/07/2014 14:30:00
Autore: Marina Crisafi