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Il mobbing nell'ambiente lavorativo non è inquadrabile nel reato di maltrattamenti in famiglia se l'azienda è articolata e di medie-grandi dimensioni.



Di Maurizio Tarantino

Cassazione Penale n. 13088 del 20 marzo 2014

Negli ultimi anni, si è consolidata lagiurisprudenza secondo la quale il "mobbing" sia punibile ai sensidell'art. 572 c.p. (reato di maltrattamento in famiglia) solo con riferimentoal rapporto lavorativo di natura para-familiare, ove si verifichi l'alterazionedella funzione di quel rapporto attraverso lo svilimento e l'umiliazione delladignità fisica e morale del soggetto passivo. ( In tal senso Cass. pen., sez.VI, sentenza 18 marzo 2009, n. 28553; Cass. pen., sez. VI, sentenza 6 febbraio - 26 giugno 2009, n. 26594 ed Cass. pen. del 13gennaio 2011, n. 685)

Per meglio dire, la configurabilità del delittodi cui all'art. 572 c.p. richiede -la sussistenza di un rapporto, tra l'agenteed il soggetto passivo, caratterizzato da un potere autoritativo, esercitato difatto o di diritto, dal primo sul secondo, il quale versa in una condizione diapprezzabile soggezione.

La descritta situazione,tradizionalmente confinata in ambito familiare, è stata successivamente estesaanche ai rapporti educativi, di istruzione, cura, vigilanza e custodia, ovveroquelli che si instaurano in ambito lavorativo. In relazione a tale ultimorapporto, in particolare, è necessarioche il soggetto agente versi in una posizione di supremazia non solo formale masostanziale, la quale si traduca nell'esercizio di un potere direttivo odisciplinare tale da rendere specularmente ipotizzabile un'apprezzabilesoggezione del soggetto passivo ad opera di quello attivo. (Cass. pen.,Sez. VI, sentenza 25 novembre - 21 dicembre 2010, n. 44803).

Da ciò, in sintesi, si ricava che, in temadi reato di maltrattamenti, rientra nel rapporto d'autorità di cui all'art. 572c.p. il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro elavoratore subordinato in quanto caratterizzato dal potere direttivo edisciplinare che la legge attribuisce al primo nei confronti del secondo.

La Suprema Corte è ormai orientata nelritenere che le condotte persecutorie poste in essere dal lavoratore possanointegrare il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.), ma solo se realizzate in un contesto aventenatura para familiare, ovvero "caratterizzatoda relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dallasoggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta nelsoggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione disupremazia" . (Cass. pen., sez. VI, 06.02.2009, n. 26594; 21.12.2010,n. 44803; 13.01.2011, n. 685; 08.05.2013, n. 19760; 03.07.2013, n. 28603).

Orbene, alla luce di tutto quantoinnanzi esposto, nel caso sottoposto alla nostra attenzione, a duecondannati in appello era stato contestato di aver posto in essere neiconfronti di tre dipendenti donne «unaserie di condotte vessatorie», consistenti, per due di esse, «in approcci sessuali tanto verbali quantofisici, nella loro assegnazione deliberata a macchinari difettosi…. indemansionamenti punitivi e episodi di preordinato isolamento dei lavoratori». Eper la terza di averla posta «all'interno di una sala di umidificazione».

Secondo la Suprema corte, con lapronuncia in esame n. 13088 del 20 marzo 2014 , però «non ognifenomeno di mobbing – e cioè di comportamento vessatorio e discriminatorio –attuato nell'ambito di un ambiente lavorativo, integra gli estremi del delittodi maltrattamenti in famiglia, in quanto, per la configurabilità di tale reato,anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 172 del 2012, è necessario chele pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente efinalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) si inquadrino in un rapportotra il datore di lavoro ed il dipendente capace di assumere una naturapara-familiare». Deve cioè essere caratterizzato da relazioniintense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezionedi una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto piùdebole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.

Con la conseguenza – osserva laCassazione – che il delitto de quo non è configurabile, anche inpresenza di una chiaro fenomeno di mobbing lavorativo, laddove non sianoriconoscibili quelle particolari caratteristiche, ad esempio se la vicenda sisia verificata nell'ambito di una realtà aziendale sufficientemente articolatae complessa, in cui non è ravvisabile quella “stretta ed intensa relazionediretta tra datore di lavoro e dipendente, che determina una comunanza di vitaassimilabile a quella del consorzio familiare”, i cui interessi la normaincriminatrice de qua ha inteso proteggere.

Ebbene, in virtù di tutto quantoesposto, secondo gli Ermellini, dunque, nonè ravvisabile il reato de quo qualora il mobbing lavorativosi sia esplicato in un ambito aziendale di grosse dimensioni ("realtàaziendale sufficientemente articolata e complessa"), ove non può realizzarsi una comunanza di vita assimilabilea quella familiare, i cui interessi sono protetti dalla norma incriminatrice.

Maurizio Tarantino

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Data: 09/04/2014 09:52:00
Autore: Maurizio Tarantino