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Non paga la fattura e il creditore lo mette su Youtube nella rubrica “Facce da schiaffi”. Per la Cassazione è diffamazione

Condannato un creditore che ha pubblicato un video su Youtube con nome, cognome e commenti sulla dubbia moralità della madre del suo debitore


diMarina Crisafi - Certoè comprensibile la frustrazione di un creditore nei confronti del mancatopagamento di una fattura dovuta. Ma l'iniziativa di mettere su Youtube il proprio debitore, in una rubrica dal titolo “Facce da schiaffi”, con tanto di nome e cognome e commenti poco oxfordianinei confronti della madre, non gli ha certo giovato, procurandogli una querela per diffamazione.

A nulla sono servite le lamentele dell'imputatoche ha imboccato sia la strada della “negazione”dell'iniziativa, sostenendo la contraddittoria riconducibilità dellapubblicazione su internet del video incriminato, sia quella della tardività della querela, sporta ben otto mesi dopo lapubblicazione online.

Né il tribunale di Genova prima né la corted'Appello dopo gli hanno dato ragione.

E la Cassazione(con sentenza n. 12695/2015 depositata ieri e qui sotto allegata) ha suggellato entrambe ledecisioni.

In ordine alla riconducibilità all'imputatodella bravata online, infatti, ad “incastrarlo”, come correttamente evidenziatodall'insindacabile valutazione d'appello, hanno affermato i giudici della S.C.,è stata la “piena corrispondenza tra ladescrizione data di sé nell'account” all'atto della registrazione al sito e lo stesso imputato.

Quanto, invece, alla tardività della querela, è vero che, hanno affermato gli Ermellini,il reato di diffamazione è di eventoe si consuma “nel momento e nel luogo incui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa e dunque nel caso in cuifrasi o immagini lesive siano state immesse sul web, nel momento in cui ilcollegamento viene attivato” e che, pertanto, si presume che l'interessatoabbia notizia dell'immissione in internet della comunicazione accedendo direttamente in rete. Tuttavia,è altrettanto verosimile, hannocontinuato i giudici, “che lo apprenda daaltre persone che in tal maniera ne siano venute a conoscenza”. Ciòpresuppone, dunque, da una parte “se non l'assoluta contestualità traimmissione in rete e cognizione da parte del diffamato, quantomeno unaprossimità temporale; dall'altra che l'interessatopossa dare dimostrazione del contrario ovvero di aver appreso solo da terzila pubblicazione”.

In ogni caso, la decadenza del diritto alla proposizione della querela, haconcluso la Cassazione rigettando il ricorso, va accertata secondo “criteri rigorosi” e non sulla base disemplici presunzioni o mere supposizioni e l'eventuale “situazione diincertezza deve essere risolta a favoredel querelante”, posto che l'onere dellaprova grava su chi allega l'inutile decorso del termine.

Data: 27/03/2015 09:10:00
Autore: Marina Crisafi