Avv. Federico Loche - Tribunale Ordinario Di Roma - Reato di Calunnia - Sentenza n. 748/2012

ABSTRACT: «C. M. G. veniva tratta a giudizio dinanzi a questo Tribunale per ivi rispondere del reato di calunnia continuato per aver inviato scritti al S. […] nei quali incolpava falsamente funzionari del predetto servizio di sottrarle indebitamente denaro. Nella specie l'incolpazione di calunnia fa riferimento alle lettere acquisite nel fascicolo dibattimentale, quali corpo di reato, inviate alle varie autorità da parte della persona dell'imputata […] All'esito [dell'istruttoria dibattimentale], acquisita una memoria difensiva, il PM e la difesa hanno precisato le loro rispettive conclusioni […]". 

Studio Legale Loche

Avverso l'anzidetta incolpazione, il difensore dell'imputata depositava una memoria difensiva nel corpo della quale spiegava le ragioni giuridiche che non consentivano di ritenere integrata la fattispecie delittuosa contestata; concludeva, infine, chiedendo che il Tribunale pronunziasse sentenza di assoluzione per l'insussistenza del fatto-reato contestato, o, in subordine, perché il fatto oggetto della verifica processuale non era sorretto dal necessario elemento psicologico. Il Tribunale Ordinario di Roma, VII Sezione penale, con sentenza 13 gennaio 2012, n. 748, assolveva l'imputata «dal reato ascrittole perché il fatto nono sussiste». 

Il reato di calunnia 

Ai sensi dell'art. 368/1 CP, è sanzionata la condotta di «Chiunque, con denuncia, querela, richiesta, o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all'Autorità giudiziaria o ad un'altra Autorità che a quella abbia l'obbligo di riferire, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato […]». La calunnia

è uno di quei delitti, previsti dal nostro ordinamento giuridico, ove la condotta illecita è totalmente permeata e intrisa dal richiesto elemento psicologico, il dolo generico ("incolpa di un reato taluno che egli sa innocente"): anzi, si potrebbe ben dire che, in tale norma, condotta ed elemento psichico si fondano in un tutt'uno ontologico -prima che normativo

 L'accertamento del dolo generico richiede, pertanto, la verifica non solo della espressa volontarietà dell'accusa che si muove, ma anche della palese consapevolezza dell'innocenza della persona destinataria dell'accusa. Si mostra, infatti, del tutto chiara la voluntas legislatoris, allorquando redigeva la citata norma codicistica, a interpretazione della quale si può ben dire oggi che «Nel delitto di calunnia il dolo non è integrato dalla [mera: NdA] coscienza e volontà della denuncia, ma richiede [finanche: NdA] l'immanente consapevolezza da parte dell'agente dell'innocenza dell'incolpato» (Corte di cassazione, Sezione VI, sentenza 12 aprile 1995). 

 Va specificato, fin d'ora, che, come osserva la Corte regolatrice, «In tema di calunnia, l'individuazione dell'elemento soggettivo (dolo generico)- cioè la consapevolezza da parte del denunciante dell'innocenza del calunniato, che è coscienza della lesività in concreto del fatto attribuito all'imputato — è evidenziata, di norma, dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che definiscono l'azione criminosa, dalle quali, con processo logico deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto. Ne consegue che l'accertamento del dolo nel delitto di calunnia consiste nella considerazione e nella valutazione delle circostanze e delle modalità della condotta che evidenziano la cosciente volontà dell'agente e sono indicative dell'esistenza di una rappresentazione del fatto» (Corte di cassazione, Sezione VI penale, sentenza n. 31446 del 16.07.2004). 

 È, dunque, necessario, per la Corte di cassazione, porre l'attenzione sulle "concrete circostanze" e sulle "modalità esecutive che definiscono l'azione criminosa" (dalle quali sia poi possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto); avendo bene in mente, al contempo, che tale sfera intellettiva e volitiva del soggetto deve avere - come vedremo amplius, infra - i connotati della certezza. Nel caso all'esame del Tribunale, invero, traspariva da ogni manoscritto della C. l'intima convinzione dell'imputata circa la colpevolezza di coloro nei confronti dei quali ella indirizzava le proprie rimostranze; i ripetuti esposti dell'imputata, infatti, sembravano scritti in fotocopia, a dimostrazione della sua assoluta, intima e radicata convinzione in merito a quanto asserito, escludendosi in tal modo la sussistenza del dolo richiesto dalla norma de qua, rendendo indubbio il convincimento dell'imputata in ordine alla responsabilità degli accusati. 

 Scrive il Tribunale in sentenza che «l'interpretazione che si ricava, anche alla luce della deposizione dei testi esaminati, si fonda su uno stato d'animo così compulsivo che fa escludere decisamente una cosciente volontà della C. di incolpare ingiustamente tali funzionari, ovverosia di così gravi illeciti penalmente rilevanti, sapendoli innocenti». Era così evidente, invero, la fermezza della C. nella redazione dei suoi scritti, la sua animosità convinta, che era ragionevole concludere in questo senso. Continua quindi il Tribunale: «è proprio la pervicacia e l'insistente doglianza contenuta in questi manoscritti che rendono un'idea sostanzialmente chiara della volontà della donna di accusare i vari soggetti, considerati ‘rei' di sottrazioni o indebite appropriazioni nei conteggi relativi alle più svariate spese sostenute […] con l'intima convinzione di ritenerli effettivamente colpevoli». 

 Tali univoche circostanze hanno quindi consentito di risalire - con processo logico induttivo - alla sfera intellettiva e volitiva dell'imputata, per giungere alla conclusione (almeno secondo l'id quod plerumque accidit) che difetta, in presenza di tali concreti elementi di univoca significazione, la consapevolezza dell'innocenza degli incolpati. Allora, se, come richiede la struttura della norma de qua, deve essere indiscutibilmente dimostrata la cd. sussistenza della coscienza e consapevolezza, in capo all'accusante, dell'innocenza dell'accusato (rispetto al fatto, alla condotta o all'evento attribuitogli), può dirsi, a ragione, che la condotta tenuta dalla C. non poteva essere sussunta all'interno della fattispecie incriminatrice astratta prevista dall'art. 368 CP. 

Valutazioni ermeneutiche 

Osserva il Tribunale di Roma, nella sentenza in commento, che correttamente «l'efficace memoria difensiva […] trae spunto dalla consolidata giurisprudenza della Suprema Corte che esclude, sotto il profilo psicologico, la configurabilità del reato di calunnia allorquando è dimostrabile che il soggetto accusatore è pienamente convinto della ‘colpevolezza' della persona che denuncia di un delitto, pur se tale convincimento sia frutto di un oggettivo errore valutazione». E infatti, è bene evidenziare che, come ripetutamente chiarito dalla Corte regolatrice, la consapevolezza dell'altrui innocenza deve essere certa; non sfugge, infatti, il costante insegnamento della Corte di legittimità allorquando osserva che «In tema di calunnia, perché sia integrato il dolo occorre che colui che formula la falsa accusa abbia la certezza della innocenza dell'incolpato. Ne deriva che la erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata esclude l'elemento soggettivo del reato» (Corte di cassazione, Sezione VI penale, sentenza n. 9853 del 19.09.2000). L'indagine circa la sussistenza della "certezza dell'innocenza dell'incolpato" pretende, inoltre, una accorta e accurata prudenza, stante la sua centralità nel configurare l'elemento psicologico del reato de quo. 

 E invero, ha osservato la Corte territoriale di Roma che «Ai fini dell'integrazione del reato di calunnia di cui all'art. 368 c.p. è necessaria una particolare cautela nell'accertamento del dolo che ne fa da fondamento poiché richiede l'assoluta certezza dell'innocenza dell'incolpato» (Corte di Appello di Roma, Sezione I penale, sentenza dell'08.06.2006). Non diversamente articola le sue riflessioni giuridiche la Corte del merito di Milano, la quale sostiene che «Per la sussistenza del delitto di calunnia è necessaria la dimostrazione che l'imputato abbia acquisito la certezza dell'innocenza dell'incolpato; ne consegue che, non può essere addebitato tale delitto allorché sussistano elementi tali da far sorgere, nell'animo del denunciante, anche soltanto ragionevoli dubbi in ordine alla colpevolezza di colui nei cui confronti la denuncia è diretta» (Corte di Appello di Milano, Sezione II penale, sentenza del 05.02.2008). Ora, a mente delle concrete circostanze con le quali si è realizzata la condotta della C., era corretto concludere per l'esclusione della consapevolezza, da parte dell'imputata, della sicura innocenza degli incolpati. Il Tribunale di Roma ha infatti correttamente evidenziato che lo stato di animosità dell'imputata «si appalesa evidente dai suoi scritti, in modo così esplicito e corrosivo ma che, al tempo stesso, è indice sintomatico di una drammatica solitudine e di un senso di abbandono che fa ulteriormente escludere una sua convinzione di manifestare le proprie proteste nei confronti di funzionari, ritenuti corrotti o perfino rei di abusi di ufficio e di peculato, sapendoli certamente innocenti». Sicché, come osserva la Corte di cassazione, «[…] qualora risulti dimostrato il convincimento — ancorché erroneo o dubitativo — dell'accusatore, in ordine alla colpevolezza degli accusati, deve pronunziarsi il proscioglimento del predetto con la più ampia formula liberatoria» (Corte di cassazione, Sezione VI penale, sentenza n. 7441 del 26.06.1992). 

 Pare inoltre pertinente citare un brano di un recente arresto giurisprudenziale, con il quale il massimo Consesso penale pone in risalto e consolida l'importanza dello scrutinio concernente il profilo soggettivo del delitto di calunnia, oltre a escludere la sussistenza dell'elemento soggettivo anche in presenza di un'erronea convinzione, da parte dell'agente, circa la colpevolezza della persona accusata: «Più specificamente, perché sì realizzi il dolo di calunnia è necessario che colui che formula la falsa accusa abbia la certezza dell'innocenza dell'incolpato. La giurisprudenza di questa Corte è, in proposito, indirizzata nella linea interpretativa in base alla quale l'erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata esclude l'elemento soggettivo […] Ed è estremamente significante rimarcare come la più recente giurisprudenza abbia ritenuto che la tendenziosità della denuncia non dimostra di per sé la consapevolezza dell'innocenza dell'accusato da parte del denunciante (Sezione sesta, 2 luglio 1998, Perrotta). Precisandosi, ancora, come tale consapevolezza è in re ipsa, ma nel senso che è evidenziata dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che connotano la condotta tenuta, dalle quali è possibile, con processo logico-induttivo, risalire alla sfera intellettiva e volitiva dell'agente: la sussistenza del dolo, in sintesi, si immedesima con l'accertamento della cosciente falsità delle circostanze oggetto della denuncia» (Corte di cassazione, Sezione VI penale, sentenza n. 13912 del 9.02.2004). Tale ultima considerazione sintetica pare di indubbia valenza esegetica, allorquando la Corte afferma che "la sussistenza del dolo, in sintesi, si immedesima con l'accertamento della cosciente falsità delle circostanze oggetto della denuncia". Accertamento che, invece, difettava nel procedimento penale conclusosi con la sentenza in commento. 

 La volontà di accusare e la scienza dell'innocenza dell'incolpato sono, come visto, le componenti essenziali - e distinte, nella loro autonomia concettuale - dell'elemento soggettivo del delitto di calunnia. Se, forse, non poteva essere posta in dubbio, nel caso in esame, la sussistenza della prima componente; diversamente, non traspariva da alcuna circostanza concreta che l'imputata avesse scienza e coscienza dell'innocenza degli incolpati -essendo anzi ella intimamente convinta del fondamento e della giustezza delle sue asserzioni.  

 Come recentemente osservato, a conferma, dal giudice nomofilattico, «L'intenzionalità dell'incolpazione e la limpida coscienza dell'innocenza dell'accusato sono dati che vanno tenuti concettualmente distinti, nel senso che la presenza del primo non comporta la necessaria sussistenza del dolo della calunnia, ma questo è integrato soltanto se da parte dell'agente vi sia anche la consapevolezza della innocenza del calunniato, consapevolezza evidenziata - di norma - dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che definiscono l'azione criminosa, da cui, con processo logico-deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto» (Corte di cassazione, Sezione VI penale, sentenza n. 12279 del 19.03.2008).  

 Giova allora concludere tali brevi argomentazioni epidittiche (si spera, non apodittiche), ricordando l'insegnamento con il quale Cicerone, con perfetta sintesi, evidenziava il confine del delitto di calunnia: aliud est maledicere, aliud accusare

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