Così i giudici del Palazzaccio, con sentenza n. 52082 del 15 dicembre 2014, hanno confermato in via definitiva la condanna per il reato di cui all'art. 594 codice penale.

Aveva forse sperato di farla franca un uomo, finito sotto processo per aver dato dello "scemo" a un vigile urbano, sostenendo che il termine non sarebbe stato offensivo.

Dopo una sentenza del Giudice di Pace di Ancona che lo condannava per il reato di ingiuria (assolvendolo per quello di minaccia), l'uomo si era rivolto alla Cassazione contestando la valenza ingiuriosa, ai sensi della legge penale, del termine da lui utilizzato. Ma cadeva dalla padella nella brace.

Non importa, per la Corte, che il termine sia contemplato dal vocabolario con riferimento a colui "che ha o dimostra poca intelligenza, sciocco, insulso" (Garzanti). E nemmeno che sia entrato nel gergo corrente e comunemente usato. Per la Cassazione dare dello "scemo" a qualcuno integra, comunque, gli estremi del reato di ingiuria.

Così i giudici del Palazzaccio, con sentenza n. 52082 del 15 dicembre 2014, hanno confermato in via definitiva la condanna per il reato di cui all'art. 594 codice penale.

Con riferimento alla natura ingiuriosa della parola "scemo", infatti, la quinta sezione penale della S.C., rigettando il ricorso e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali, ha richiamato un precedente giurisprudenziale secondo cui "le frasi volgari e offensive sono idonee a integrare gli estremi del reato (di oltraggio) anche se siano divenute di uso corrente in particolari ambienti perché l'abitudine al linguaggio volgare e genericamente offensivo proprio di determinati ceti sociali non toglie alle dette frasi la loro obiettiva capacità di ledere il prestigio del pubblico ufficiale, con danno della pubblica amministrazione da esso rappresentata". 

 

Cassazione Penale, testo sentenza 15 dicembre 2014, n. 52082

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