Avv. Chiara Valente del Foro di Trieste;

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In base all'art. 85 c.p. è imputabile, e quindi, penalmente perseguibile, colui il quale ha la capacità di intendere e di volere. Ciò significa che, solo al soggetto in condizione di comprendere il valore sociale delle proprie azione e di valutare la realtà attraverso elementi intellettivi, affettivi ed emotivi, controllando i propri impulsi volti al compimento delle azioni, potrà essere irrogata una pena per un fatto costituente reato.

Per i sostenitori della finalità specialpreventiva, a cui sta a cuore "neutralizzare socialmente" l'autore della condotta criminosa, si puntualizza, che ciò non significa che al soggetto socialmente pericoloso, qualora incapace di intendere e di volere, verrà concesso di agire indisturbato, bensì, sussistendone i presupposti, saranno a lui comminabili misure di sicurezza sostitutive al carcere.

Invero, la ratio della norma, si estrinseca nel fatto che, il soggetto che non possiede le sopraindicate capacità, non può considerarsi responsabile della propria condotta né per questa assoggettabile a sanzione, poiché sarebbe incapace di coglierne le finalità punitive e rieducative perseguite dal nostro ordinamento. E' ciò, in evidente conformità ad uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione, espresso dall'art. 27, secondo cui la responsabilità penale è personale e, di conseguenza, la funzione rieducativa della pena non può certo realizzarsi in ordine a fatti in cui non sia possibile muovere alcun rimprovero all'autore.

E' dato indiscusso, infatti, che la rimproverabilità di un individuo dipende dalla possibilità che questi ha di scegliere condotte alternative, possibilità esclusa in stato di incapacità di intendere e volere.

Orbene, operata tale premessa, bisogna distinguere al fine della rilevanza penale del fatto e della punibilità, il vizio totale di mente contemplato dall'art. 88 c.p., dal vizio parziale di mente, contemplato altresì dall'art. 89 c.p.

Nel primo caso, si osserva come la capacità di intendere e di volere è totalmente esclusa, motivo per cui il soggetto non sarà imputabile, né  punibile, e ove il Giudice accerti le condizioni di pericolosità, potrà essere disposto eventualmente il ricovero in OPG (ospedale psichiatrico giudiziario).

Diversamente, qualora il soggetto si trovi in uno stato mentale in grado di scemare solo gradatamente la capacità di intendere e di volere, senza per questo escluderla, questi risponderà del reato, ma la pena sarà diminuita.

Si osserva, che come bene chiarisce una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione (Cass. pen., 41083/2013), l'imputabilità e la colpevolezza operano su due differenti piani d'azione, in quanto si riferiscono a due diversi concetti, e ciò, benché la seconda non possa prescindere dalla prima, quale base della responsabilità.

In tale contesto, quindi, il vizio parziale di mente deve valutarsi a ragion veduta del dolo, potendo ben sussistere tale elemento soggettivo del reato, anche di fronte ad un'ipotesi di seminfermità mentale. Un tanto, poiché, come ben rappresentano i giudici di legittimità, mentre l'imputabilità riguarda il momento della formazione della volontà, il dolo ha a che vedere con il momento in cui questa si esteriorizza e persegue gli obiettivi avuti di mira dall'agente, per cui, in sintesi, la coscienza e volontà della condotta incriminata può sussistere anche in presenza di una scemata capacità di intendere e volere.

Alla luce di un tanto, anche qualora il reato risulti commesso da un soggetto che si sia appurato seminfermo di mente, il giudice dovrà operare una ricognizione e verifica in relazione alla sussistenza dell'elemento psicologico, atteso che anche se diminuita, la capacità di intendere e volere del soggetto potrebbe essere stata rilevante ai fini della configurabilità del reato.

E così, per maggior chiarezza espositiva, si espone il caso di cui alla massima sopracitata, dal quale traggono origine le presenti considerazioni.

Si osserva che nella fattispecie, in riforma della sentenza di merito, l'imputato veniva condannato per il reato di evasione, ritenuto il giudice irrilevante il difetto di capacità di intendere e volere con riferimento alla condotta incriminata, per cui il soggetto sarebbe uscito dalla propria abitazione in violazione della misura di custodia cautelare; secondo la motivazione de qua, infatti, trattandosi di un reato punito a titolo di dolo generico, e non essendo quindi richiesto il quid pluris del dolo specifico, il reato era da ritenersi integrato per la semplice coscienza dell'azione contraria ad un provvedimento dell'autorità, a prescindere da quale fosse la motivazione alla base della condotta.

Nel qual caso, il giudice di primo grado aderiva alla tesi della difesa e affermava l'assenza di responsabilità in capo all'imputato, avendo egli agito senza alcun proposito di sottrarsi alla misura cautelare impostagli, bensì, spinto ad uscire dall'abitazione dall'impulso, correlato alle proprie condizioni di seminfermità mentale, di allontanarsi di pochi metri da essa per "prendere un po' d'aria" dopo l'assunzione di un farmaco neurolettico.

Contrariamente, la Suprema Corte, adita dalla pubblica accusa con ricorso immediato, si pronunciava secondo il suddetto principio, avendo cura di precisare che il giudice di merito, accogliendo la tesi difensiva,  avrebbe erroneamente assimilato alla condizione di scemata capacità di intendere e di volere sussistente al momento del fatto, l'assenza del dolo del reato di cui all'art. 385, 3 comma c.p., senza tenere conto che anche nelle condizioni di imputabilità diminuita di cui all'art. 89 c.p., esiste pur sempre una parziale capacità di intendere e di volere, per cui, con riferimento ai reati connotati da dolo generico non si può prescindere da una valutazione sul caso specifico della rilevanza della seminfermità ai fini della colpevolezza.

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