La recente decisione del Gip di Tivoli e considerazioni sui rischi e pericoli del trattamento sanitario coatto

di Pierluigi Abenante - Com'è noto, in Italia manca un quadro normativo di riferimento in merito alla questione del consenso informato. Il rapporto paziente-medico, è stato, per anni, un rapporto paternalistico, fortemente basato sul rapporto di fiducia. Al medico infatti era concessa ampia autonomia sul piano della scelta della terapia, ma soprattutto il paziente era un mero oggetto, privo di autonomia decisionale e alla mercé delle determinazioni dello specialista.

Elementi del consenso informato

La Costituzione del '48 prende ampie distanze da questo stato di fatto. A seguito dell'introduzione degli artt. 2, 13 e 32 Cost., infatti, il consenso «si configura quale vero e proprio diritto della persona [...]», sicchè, l'autodeterminazione del malato assume il ruolo di «fondamento giuridico primario dei poteri- doveri del medico». Perciò, se il diritto alla tutela della salute individuale è ineludibilmente assoggettato all'assenso dell'interessato (art. 32 Cost.), ne deriva che la pur imminente ed obiettiva presenza un'esigenza terapeutica non potrà mai ritenersi sufficiente ad autorizzare, di per sé, l'intervento in garanzia del sanitario.Anche la recentissima l. n. 24 del 2017 ha mancato (è un caso?) di trattarlo. Visto lo scenario precario ed aleatorio nel quale ci muoviamo, è apprezzabile lo sforzo di dottrina e giurisprudenza i quali hanno cercato di individuare coordinate utili a distinguere le manifestazioni di volontà degne di tutela, da dichiarazioni emotive, superficiali o comunque non attendibili. Nello specifico, si è affermato che l'assenso all'atto terapeutico presuppone «un'adeguata informazione del paziente», il quale deve essere informato sulle modalità operative dell'intervento e sulle sue conseguenze.

Fondamentale a riguardo: il consenso deve essere «attuale» e «personale». La dottrina prevalente considera che il requisito d'attualità attiene non tanto al piano temporale, ma logico: sarebbero cioè valide anche le dichiarazioni «ora per allora», se rese in modo informato, inequivoco e con riguardo allo specifico trattamento sanitario di cui si abbisogna. Riguardo invece il requisito di personalità della manifestazione di volontà, l'orientamento prevalente ritiene che la dichiarazione di assenso o di rifiuto di cure, avendo a oggetto un diritto personalissimo, debba essere resa liberamente e direttamente dall'interessato, il quale deve essere capace d'intendere e di volere.

Il caso e la decisione del Gip di Tivoli dell'11 febbraio 2017

Una donna, aderente alla congregazione dei Testimoni di Geova, viene ricoverata cosciente all'ospedale di Tivoli a cagione della grave anemia di cui soffre. Ancora in stato di lucidità, presta per scritto il suo dissenso alle emotrasfusioni, in due occasioni, nel susseguirsi di pochi giorni, perdendo coscienza poco dopo. Non curanti di tale rifiuto, i medici effettuano almeno due emotrasfusioni. Visto lo stato d'incapacità della donna viene nominato un Amministratore di sostegno

, il quale ribadisce in modo fermo le volontà già rese per iscritto dalla donna inferma, vietando ulteriori emotrasfusioni. I medici decidono nuovamente di praticare alla paziente le trasfusioni ritenute necessarie, dandone contestualmente comunicazione alla Procura della Repubblica, attraverso un documento in cui si fa menzione del contatto avuto con l'Amministratore e s'invoca, a propria scusa, lo stato di necessità.

Il marito della paziente decide dunque di sporgere denuncia contro i medici dell'A.s.l. per lesioni e violenza privata, ma dopo tre anni il Pubblico ministero presso il Tribunale chiede l'archiviazione per l'unico delitto iscritto a carico dell'indagato: l'abuso di ufficio. Investito della richiesta, il giudice per le indagini preliminari emette un'ordinanza con la quale dispone l'archiviazione del procedimento istruito per il delitto i cui all'art. 323 c.p., ordinando al contempo l'iscrizione del medico responsabile delle trasfusioni per i reati di violenza privata (art. 610 c.p.) e mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice (art. 388, comma 2 c.p.).

La violazione del dissenso del paziente all'emotrasfusione

Come noto, l'art. 323 c.p. disciplina un reato proprio contro la Pubblica amministrazione, ai sensi del quale il pubblico ufficiale (art. 357 c.p.) o l'incaricato di pubblico servizio (art. 358 c.p.) devono aver realizzato intenzionalmente un danno ingiusto o altresì un vantaggio ingiusto per sé o per altri, come conseguenza della dolosa violazione di legge o di regolamento commessa.

Il G.I.P. dunque ribalta l'ipotesi accusatoria concentrando la sua riflessione sul dolo intenzionale ed escludendolo appunto per via della evidente incompatibilità tra la finalità terapeutica perseguita la necessità di avere come «obiettivo immediato e diretto» la realizzazione di un ingiusto profitto o, altresì, di un danno alla paziente.

Risolta la questione dell'abuso d'ufficio, il giudice si trova a fare i conti con le ipotesi prospettate in sede di opposizione alla richiesta di archiviazione: i reati di lesioni personali dolose e di violenza privata.

Con riferimento al reato di lesioni, le Sezioni Unite hanno precisato che la «malattia» di cui all'art. 582 c.p. non può più essere intesa al modo di «qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell'organismo, ancorché localizzata e non influente sulle condizioni organiche generali»

Difatti, con l'introduzione dell'art. 32 Cost., l'oggetto giuridico del reato in parola deve essere individuato nel bene dinamico della salute e non più in quello statico dell'integrità. Prendendo le mosse da tale ragionamento della Suprema Corte, il GIP ha buon gioco nell'escludere l'applicabilità dell'art. 582 c.p. al caso di specie. Difatti, la fattispecie criminosa delineato dall'art. 582 c.p. richiede per il suo perfezionamento un evento prettamente oggettivo. Si potrebbe dire, icasticamente, sine morbo nulla iniuria. Le emotrasfusioni praticate alla donna, però, non hanno all'evidenza «alterato in peius lo stato di salute della donna o aumentato le sue sofferenze o addirittura accelerato l'esito infausto», conseguentemente il fatto non può essere considerato tipico a questa stregua, a nulla rilevando l'avvenuta (e plurima) violazione del dissenso dell'inferma.

Decisamente più complicata la situazione relativa alla violenza privata. Premesso che, ove il medico opere contro la volontà del paziente, corpore vili, costringendolo a subire qualcosa che non vuole subire, siamo dinnanzi un certa rilevanza penale del trattamento medico arbitrario c.d. coatto.

il Giudice per le indagini preliminari preliminarmente si sforza di sottolineare come le trasfusioni operate dall'indagato siano avvenute «in assenza del prescritto consenso», e anzi contro l'espresso dissenso della paziente prima, e del suo Amministratore poi. Inoltre, il decidente evidenzia come in questo caso l'atto violento sia logicamente e cronologicamente ben distinguibile dall'evento che la paziente è stata costretta a subire, consistendo il primo nell'inserimento dell'ago nel corpo dell'inferma, e il secondo nel trattamento trasfusionale previamente rifiutato, che l'inserimento dell'ago è funzionale a farle tollerare. Conseguentemente, si ipotizza l'avvenuta integrazione dell'art. 610 c.p. L'ordinanza si conclude ravvisando un'ulteriore ipotesi delittuosa a carico del terapeuta, consistente in particolare nella mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice. L'ultima trasfusione di sangue, infatti, è stata compiuta violando apertamente la dichiarazione dell'Amministratore di sostegno , nominato specificamente per far rispettare la volontà della paziente. Così facendo, l'indagato avrebbe eluso «il provvedimento del giudice tutelare funzionale alla prestazione di quel rifiuto», integrando pertanto il reato disciplinato dall'art. 388, comma 2 c.p.

Ragionando sul caso di specie, è evidente come emergano profili critici di delicata portata. In primis, d'accordo sul fatto che si proclami la salute quale diritto individuale del cittadino, che diviene l'unico titolare a esprimere le proprie, insindacabili valutazioni sul suo stato psicofisico, è pur vero che in alcuni casi limite, chi agisce per tutelare la salute di un cittadino rischia di restare vittima di una "trappola di diritti" che, seppur primari tra loro, appaiono visibilmente in contrasto: il diritto alla salute ed il diritto al rispetto delle proprie volontà. In questi casi è impossibile stabilire una scala di primarie importanze, parlando di diritti primari in assoluto.

Forse, bisognerebbe tornare alla radice delle cose e dunque al "diritto di avere diritti", come insegnava il Prof. Rodotà. Il diritto di avere diritto ad una riforma della materia, la quale disciplini con puntualità ed esattezza determinate situazioni, limitando le ingerenze dei multiculturalismi religiosi, oggi dilaganti fino al punto di risultare "invadenti" nel nostro tessuto di legge, oltre al mettere al riparo, da strani paradossi, un medico che ha giurato di salvare la vita ai pazienti e poi si trova inseguito ed intrappolato in un ginepraio di ipotesi accusatorie, le più delle volte terminate in senso favorevole all'imputato.

In tale quadro, si fa fatica ad assicurare tutela penale alla libertà e dignità del malato, ma si fa ancora più fatica lasciare un malato morire sotto i propri occhi!


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