Integrata la diffamazione, per chi apostrofa in modo dispregiativo la sperimentazione animale con il termine vivisezione

di Marina Crisafi - La ricerca sugli animali non è vivisezione e chi usa il termine in modo scorretto commette reato. E' questo il sunto della decisione della terza sezione civile della Cassazione (n. 14694/2016 qui sotto allegata), che ha confermato la condanna al risarcimento dei danni per diffamazione a carico di un sito animalista per aver apostrofato dispregiativamente la pratica della sperimentazione animale con il termine vivisezione.

Nella vicenda, la promotrice del sito internet contro l'utilizzo degli animali a scopo scientifico, aveva usato il termine vivisettori con chiara connotazione invettiva per definire i ricercatori di un istituto in cui vengono impiegati animali per esperimenti scientifici (nella specie, sperimentazione tossicologica di farmaci in vitro e non vivisezione, intesa come dissezione anatomica di animali vivi), accostando quindi la ricerca scientifica in toto alla pratica della vivisezione e dipingendola come pratica cruenta e inutile. Per di più aveva messo online i dati dei dipendenti dell'istituto.

La società e i suoi dipendenti la trascinavano in giudizio e i giudici di merito davano loro ragione.

La corte d'appello, dopo aver dato per ammesso che i termini "vivisezione, vivisettori e vivisezionisti" usati nel sito gestito dalla ricorrente abbiano assunto nell'uso corrente un'accezione ampia che non ne limita il riferimento alla dissezione anatomica di animali vivi ma li riferisce alla sperimentazione animale in genere, ha tuttavia reputato che "detti termini usati nel sito internet connotassero negativamente dal punto di vista etico siffatta attività di sperimentazione", incidendo non già sulla verità dei fatti ma sulla continenza del messaggio "per la forte suggestione negativa che esercita sul fruitore aumentata dall'accostamento a termini come tortura e morte per gli animali che alla vivisezione richiamano".

Per il giudice di merito, inoltre, il sottolineare la crudeltà e arretratezza dell'attività di ricerca correlandola alla sua affermata inutilità scientifica, va ben oltre il limite del diritto di critica, concretizzandosi invece in una offesa gratuita e tesa a stimolare contrapposizione ed aggressività.

Anche per gli Ermellini, si è ben fuori dal diritto di critica e la tesi della Corte d'Appello è corretta.

Rileva la S.C., infatti, che "in diritto quanto alla continenza ciò che rileva per ritenere sussistente la scriminante è che le opinioni espresse riguardo ai fatti esposti siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un ragionato dissenso dal comportamento preso di mira e non si risolvano in un'aggressione gratuita e distruttiva della reputazione del soggetto interessato". Trascende, invece, "il diritto di critica l'aggressione del contraddittore, sebbene compiuta in clima di accesa polemica, risoltasi nell'accusa di perpetrazione di veri e propri delitti o comunque di condotte infamanti, in rapporto alla dimensione personale, sociale o professionale del destinatario".

Nel caso di specie, il giudice di merito ha ritenuto offensive e tali da costituire fonte di responsabilità della ricorrente la reiterata attribuzione ai ricercatori "della qualifica di vivisettori o vivisezionisti accostata a termini come tortura e morte e la formulazione di accuse integranti condotte particolarmente infamanti proprio in riferimento all'ambito scientifico di attività di sperimentazione animale della società e dei suoi dipendenti".

In altre parole, correttamente il giudice ha escluso che sia stata legittimamente esercitata la critica da parte della promotrice del sito animalista perché ha accertato con valutazione in fatto che la sua azione si è risolta nell'accusa rivolta ai ricercatori di "tenere una condotta riprovevole sotto il profilo morale, accusa mossa con modalità espressive e toni gratuitamente offensivi ed idonei a stimolare contrapposizione ed aggressività". Per cui la decisione va confermata.

Cassazione, sentenza n. 14694/2016

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