La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (Sent. 16207/08) ha stabilito che il lavoratore non può usufruire dei congedi parentali per contribuire alle esigenze organizzative della famiglia ma solo ed esclusivamente per la cura diretta dei figli. In particolare gli Ermellini hanno precisato che il "congedo parentale - nella specie, spettante al padre lavoratore - si configura come un diritto potestativo costituito dal comportamento con cui il titolare realizza da solo l'interesse tutelato e a cui fa riscontro, nell'altra parte, una mera soggezione alle conseguenze della dichiarazione di volontà. Tale diritto, in particolare, viene esercitato, con il solo onere del preavviso, sia nei confronti del datore di lavoro, nell'ambito del contratto di lavoro subordinato, con la conseguente sospensione della prestazione del dipendente, sia nei confronti dell'ente previdenziale, nell'ambito del rapporto assistenziale che si costituisce ex lege per il periodo di congedo, con il conseguente obbligo del medesimo ente di corrispondere l'indennità".
La Corte ha quindi rilevato che si deve ritenere "verificato un abuso del diritto potestativo di congedo parentale, di cui all'art. 32, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 115 del 2001, allorché il diritto venga esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere al altra attività di lavoro, ancorché incidente positivamente sulla organizzazione economica e sociale della famiglia" e che la tutela della paternità si risolve "in misure volte a garantire il rapporto del padre con la prole in modo da soddisfare i bisogni affettivi e relazionali del bambino al fine dell'armonico e sereno sviluppo della sua personalità e del suo inserimento nella famiglia; tutte esigenze che, richiedendo evidentemente la presenza del padre accanto al bambino, sono impedite dallo svolgimento dell'attività lavorativa e impongono pertanto la sospensione di questa, affinché il padre dedichi alla cura del figlio il tempo che avrebbe invece dovuto dedicare al lavoro. Si comprende, allora, che una siffatta conversione delle ore di lavoro, se pure non deve essere intesa alla stregua di una rigida sovrapponibilità temporale, non può però ammettere un'accudienza soltanto indiretta, per interposta persona, mediante il solo contributo ad una migliore organizzazione della vita familiare, poiché quest'ultima esigenza può essere assicurata da altri istituti (contrattuali o legali) che solo indirettamente influiscono sulla vita del bambino e che, in ogni caso, mirano al soddisfacimento di necessità diverse da quella tutelata con il congedo parentale, il quale non attiene ad esigenze puramente fisiologiche del minore ma, specificamente, intende appagare i suoi bisogni affettivi e relazionali onde realizzare il pieno sviluppo della sua personalità sin dal momento dell'ingresso in famiglia". Nell'impianto motivazionale della decisione si legge poi che "la configurazione di tale diritto non esclude la verifica delle modalità del suo esercizio, per mezzo di accertamenti probatori consentiti dall'ordinamento, ai fini della qualificazione del comportamento del lavoratore negli ambiti suddetti (quello del rapporto negoziale e quello del rapporto assistenziale). Tale verifica […], trova giustificazione, sul piano sistematico, nella considerazione che - precipuamente nella materia in esame - anche la titolarità di un diritto potestativo non determina mera discrezionalità e arbitrio nell'esercizio di esso e non esclude la sindacabilità e il controllo degli atti - mediante i quali la prerogativa viene esercitata - da parte del giudice, il cui accertamento può condurre alla declaratoria di illegittimità dell'atto e alla responsabilità civile dell'autore, con incidenza anche sul rapporto contrattuale. La configurazione e i limiti di questo controllo giudiziale sono stati oggetto di una precisa evoluzione nella giurisprudenza di questa Corte, che, in virtù della crescente valorizzazione dei principi di correttezza e buona fede e della operatività di essi in sinergia con il valore costituzionale della solidarietà […], ha anche segnato limiti e criteri dell'esercizio del diritto nell'ambito del processo, identificando forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che l'ordinamento riconosce al titolare del diritto e che costituisce la ragione dell'attribuzione al medesimo titolare della potestas agendi". La Corte ha quindi evidenziato che "si deve ritenere in generale che quante volte esista un diritto soggettivo si configura necessariamente una corrispondenza oggettiva fra il potere di autonomia conferito al soggetto e l'atto di esercizio di quel potere, secondo un legame che è ben evidente nella cd. autonomia funzionale i cui poteri sono positivamente esercitati in funzione della cura di interessi determinati, come avviene normalmente nell'autonomia pubblica ma come avviene anche, sempre più diffusamente, nell'autonomia privata, ove l'esercizio del diritto soggettivo non si ricollega più alla attuazione di un potere assoluto e imprescindibile ma presuppone un'autonomia, libera, comunque collegata alla cura di interessi, soprattutto ove si tratti - come nella specie - di interessi familiari tutelati nel contempo nell'ambito del rapporto privato e nell'ambito del rapporto con l'ente pubblico di previdenza, sì che il non esercizio o l'esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto dall'ordinamento".

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