Tutte le somme versate sul conto bancario del professionista, anche se cointestato con altre persone (es. moglie), vanno imputate alla sua attività di lavoro autonomo salva, naturalmente, la prova contraria.
Lo ha deciso la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Sent. 14847/2008) precisando che "in tema di accertamento delle imposte sui redditi ai sensi degli artt. 32 e 39 del d.P.R. 600/1973, i dati raccolti dall'Ufficio in sede di accesso ai conti correnti bancari di un professionista consentono, in virtù della presunzione legale contenuta nella detta normativa, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell'attività di lavoro autonomo svolta dal medesimo, salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della detta attività e che pertanto, in relazione alla suddetta presunzione concernente gli elementi risultanti dagli accertamenti bancari, si determina una inversione dell'onere della prova, per cui […], deve ritenersi che l'amministrazione abbia fornito la prova dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria e spetta al contribuente fornire adeguata e specifica prova contraria".
La Corte ha poi aggiunto che "la suddetta prova contraria deve essere circostanziata e non può consistere nella mera affermazione che sul conto corrente confluivano anche somme di pertinenza di terzi, avendo in particolare questa Corte affermato […] che, al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dall'art. 32, d.P.R. 600/1973, 'non è sufficiente dimostrare genericamente di aver fatto affluire su un proprio conto corrente bancario, nell'esercizio della propria professione, somme affidategli da terzi in amministrazione, ma è necessario che egli fornisca la prova analitica della inerzia alla sua attività di maneggio di denaro altrui di ogni singola movimentazione del conto'".

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