Il lavoratore può legittimamente rifiutarsi di svolgere mansioni non rientranti nella propria qualifica di appartenenza, ma in quella inferiore? La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza 12 febbraio 2008, n. 3304, ha risposto positivamente al suddetto quesito. La questione ha riguardato un lavoratore, impiegato direttivo, a cui sarebbe stato affidato un incarico "non rispondente alla sua pregressa professionalità" che lo stesso si è rifiutato di svolgere, conducendo alla conseguenza di un licenziamento
disciplinare nei suoi confronti. L'interessato propose ricorso al giudice del lavoro per vedersi riconoscere l'accertamento del suo diritto all'inquadramento nella categoria dei dirigenti ovvero nella superiore qualifica di fatto posseduta, la reintegra nelle mansioni svolte prima dell'intervenuto demansionamento e la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare, che gli era stato intimato a distanza di oltre 10 anni. La domanda dell'interessato fu respinta in primo grado e accolta in appello e, avverso quest'ultima decisione, il datore di lavoro propose ricorso per cassazione. La Corte, nel richiamare un proprio recente orientamento (Cass. 26 giugno 1999 n. 6663; Cass. 1° marzo 2001 n. 2948; Cass. 7 novembre 2005 n. 21479; Cass. 8 giugno 2006 n. 13365; Cass. 27 aprile 2007 n. 10086), ha affermato che il rifiuto da parte del lavoratore subordinato di svolgere mansioni non spettanti è legittimo, in base al principio di autotutela nel contratto
a prestazioni corrispettive enunciato dall'art. 1460 c.c., nella condizione in cui il rifiuto sia proporzionato all'illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede. Pertanto, continua il Collegio, nell'ipotesi in cui il lavoratore sia sanzionato disciplinarmente per insubordinazione per aver rifiutato di svolgere le nuove mansioni affidategli, eccependone la violazione dell'art. 2103 c.c., il giudice adito per accertarne la legittimità del siffatto comportamento del lavoratore dovrà procedere ad una valutazione complessiva dei comportamenti di entrambe le parti, verificando, in primo luogo "la correttezza dell'operato del datore di lavoro in relazione all'eventuale illegittimità dell'esercizio dello ius variandi (Cass. 1° marzo 2001 n. 2948; Cass. 2 luglio 2002 n. 10187). In pratica, secondo la richiamata giurisprudenza (Cass. civ. Sez. lavoro, n. 6663 del 1999; Cass. civ. Sezione lavoro, n. 6984 del 1996) il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato e sanziona inflitta è riservato al giudice di merito, il quale deve tenere conto di ogni aspetto del caso concreto, quali la natura del rapporto, l'entità della mancanza, la ripetitività della stessa, ecc. al fine di verificare se il comportamento è idoneo a far venir meno l'elemento fiduciario della collaborazione tra le parti. Infine, in base ad un indirizzo consolidato (ex plurimis Cass. n. 4766 del 6.3.2006) giova ricordare che la prova, in caso di dequalificazione o demansionamento del lavoratore, laddove questi deduca l'inesatto adempimento dell'obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c., non grava sul primo (creditore) che dovrebbe provare l'inesatto adempimento dedotto, bensì sul secondo (debitore), il quale è tenuto a dimostrare o il suo esatto adempimento o la ricorrenza di una circostanza giustificativa dell'inesatto adempimento addotto ex adverso, quale, ad esempio, il legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o l'impossibilità della prestazione per causa non imputabile. Gesuele Bellini
Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 3304 del 12 febbraio 2008 - Bellini Gesuele

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