Il capo che pretende, sprona e rimprovera i suoi collaboratori perché vuole che il lavoro sia fatto bene non commette reato

Il capo esigente commette reato?

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Non è sufficiente a integrare il reato di abuso dei mezzi di correzione la condotta della dirigente severa ed esigente che sprona i suoi collaboratori, li ammonisce e li critica perché vuole che il lavoro svolto nell'ufficio venga svolto al meglio. Per la Cassazione quindi, che si è espressa dietro ricorso dell'imputata con la sentenza n. 35939/2021 (sotto allegata), la sentenza della Corte di appello che ha condannato l'imputata, dopo aver ribaltato il giudizio di primo grado, va annullata senza rinvio.

La vicenda processuale

In sede di Appello viene ribaltato l'esito assolutorio della sentenza di primo grado nei confronti di una dirigente, anche se il reato del quale la donna è stata accusata, ossia di maltrattamenti, deve essere riqualificato come abuso dei mezzi di correzione e di disciplina di cui all'art. 571 c.p commesso ai danni di una delle impiegate a lei subordinate. La persona offesa ha dichiarato che l'imputata praticamente ogni giorno la rimproverava, definendola incompetente e lavativa e ostacolandola quando la stessa chiedeva dei permessi per visite mediche o giorni di ferie e creando all'interno dell'ufficio uno stato di tensione continua e d'intimidazione.

Senza offese e minacce non c'è illecito

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L'imputata nel ricorrere in Cassazione:

  • contesta che la Corte di Appello, nel corso della rinnovata istruttoria, abbia sentito solo la persona offesa e altri testimoni della parte, senza motivare il mancato ascolto di quelli richiesti dalla difesa;
  • sottolinea poi un errore in cui è incorso il giudice dell'impugnazione, nel disporre l'esame della persona offesa
    , visto che la stessa non è mai stata sentita in precedenza, essendosi limitata a sporgere querela;
  • contesta la sussistenza del reato che gli è stato addebitato anche perché la Corte di appello l'ha condannata pur ammettendo che non tutte le condotte contestate sono state provate e pur rilevando che le sue azioni, ispirate a un atteggiamento di severità e dettate da necessità lavorative, di fatto non sono mai scadute in attacchi e offese personali;
  • ritiene poi che la Corte avrebbe dovuto motivare in maniera rafforzata le ragioni per le quali ha deciso di superare la sentenza assolutoria di primo grado, visto che ne ha ribaltato l'esito;
  • infine per l'imputata la Corte di Appello ha valorizzato impropriamente una condanna disciplinare, tra l'altro annullata e non adottata da un'autorità giudiziaria.

Una condotta severa, senza abuso, non è reato

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Per la Cassazione, escluso il secondo motivo del ricorso, da ritenersi infondato, gli altri sono fondati e meritano di essere accolti. La sentenza viene quindi annullata senza rinvio.

Gli Ermellini rilevano prima di tutto l'infondatezza del secondo motivo di ricorso perché l'obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa, se si giunge alla riforma della sentenza di assoluzione di primo grado, sussiste anche quando è stata acquisita la sola querela della persona offesa non escussa, perché il documento ha contenuto dichiarativo.

Fondato invece il motivo con cui si contesta l'assenza di motivazione sulla mancata ammissione dei testi della difesa visto che le dichiarazioni degli stessi erano state valorizzate dal giudice di primo grado e quindi idonee a incidere sulla decisione con cui è stata riformata la conclusione assolutoria.

Vero poi che il giudice dell'impugnazione avrebbe dovuto redigere una motivazione rafforzata della sentenza che ha capovolto l'esito del giudizio di primo grado, in quanto la condanna presuppone la certezza della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.

Fondato anche il motivo che contesta l'addebito del reato in quanto in Gip ha concluso che l'imputata "si era sempre comportata con i propri collaboratori in maniera estremamente esigente, controllando assiduamente e in forma incalzante il loro lavoro, spronandoli affinché prestassero il servizio in termine di massima efficienza, atteggiamenti che, lungi dall'integrare gli estremi dell'ingiuria o della minaccia, avevano portato l'imputata a rimproverare in più occasioni i propri collaboratori, avanzando nei loro confronti severe critiche, formulando espressioni dirette di biasimo o richiami fatti ad alta voce, persino da una stanza ad un'altra, ma con iniziative che erano state sempre giustificate da censure fondate, aventi come scopo quello di risolvere problematiche contingenti all'ufficio."

Innegabile quindi che la condotta dell'imputata in qualche occasione abbia alterato il clima dell'ambiente di lavoro, ma è anche vero che solo i soggetti più fragili lo hanno interpretato come vessatorio e offensivo, considerato che la stesso non ha mai "travalicato i limiti delle prerogative connesse alle funzioni direttive il cui esercizio era stato affidato" all'imputata.

Incomprensibile quindi per gli Ermellini la ragione per la quale la Corte di Appello sia giunta a ribaltare l'esito della sentenza di primo grado, considerato che il reato di abuso dei mezzi di correzione e di disciplina ricorre solo nei casi in cui, appunto, come si evince dal titolo della norma, il titolare del potere che deriva dalla propria posizione ne abusi e lo manifesti in maniera eccentrica e senza alcuna ragione ricollegabile agli obiettivi lavorativi.

Fondato infine anche il motivo con cui l'imputata ha contestato la valorizzazione di una decisione disciplinare presa nei suoi confronti ai fini da parte della Corte di appello, visto che la stessa è stata poi annullata e che il provvedimento disciplinare non è vincolante per il giudice penale. L'art 238 c.p.p infatti, tra gli atti che possono acquisiti nel giudizio penale ci sono solo quelli che promanano da un altro giudizio penale o civile, senza menzione alcuna di verbali o decisioni disciplinari.

Scarica pdf Cassazione n. 35939/2021

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