Violazione del D.lgs. 231/2001 in merito ai reati commessi dai responsabili dell'ente collettivistico per interessi dello stesso

La responsabilità penale delle persone giuridiche

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L'introduzione nel nostro ordinamento giuridico della responsabilità diretta degli enti per fatto reato è avvenuta ad opera del D.Lgs 231/2001. Questa novità legislativa, ormai abbastanza remota, è stata avvertita come una rivoluzione copernicana, in quanto ritenuta sovversiva del consolidato principio, mutuato dal diritto criminale romano, societas delinquere non potest, in forza del quale nessuna condotta delittuosa può essere imputata ad un ente collettivo. Tale concezione, principalmente rafforzata nel periodo illuminista in cui non era ancora sviluppato, come oggi, un modello di organismi sovraindividuali, giuridicamente riconosciuto, per il perseguimento di interessi (economici e non). Epoche in cui nei rapporti sociali prevaleva la figura dell'uomo, inteso come individuo, tant'è che non si sentiva l'esigenza di elaborare una dogmatica della responsabilità penale degli enti. Per cui, a seguito dell'evoluzione della nostra società, si è fatta strada la convinzione che punendo l'ente si finirebbe per punire anche chi, come i suoi soci in una società commerciale, non ha nulla a che vedere con la commissione del reato.
Il codice penale del 1930 presenta una struttura tipicamente antropocentrica, mettendo l'uomo al centro di ogni considerazione. La concezione antropocentrica viene portata avanti anche dall'art. 27 della Costituzione
, il cui comma 1 vieta espressamente non solo forme di responsabilità per fatto altrui, ma anche che prescindano da un minimum di colpevolezza del soggetto agente. Anche il finalismo rieducativo della pena costituisce un limite alla configurabilità della responsabilità dell'ente, in quanto mero artificio tecnico giuridico non può essere destinatario di alcuna azione rieducativa, poiché, per propria natura, non stabile. Esso può mutare nel corso del tempo, con il cambiamento del proprio management, o col mutamento della compagine societaria.
Nel tentativo di superare lo sbarramento dell'art. 27 Cost., alcuni studiosi hanno evocato la teoria del rapporto di immedesimazione, attraverso la quale il soggetto che agisce in nome e per conto dell'ente non è un suo mero rappresentante, ossia un soggetto estraneo all'ente rappresentato, ma ne è parte integrante, cioè un suo organo attraverso il quale esso esprime la volontà nelle relazioni giuridiche.
Riscontri di diritto positivo di tale impostazione si desumono anche dall'art. 197 c.p. e dall'art. 6 della legge 689/1981, che stabiliscono rispettivamente la responsabilità civile sussidiaria dell'ente in caso di insolvibilità dell'autore di un reato commesso nell'interesse della persona giuridica condannato al pagamento di una multa o di una ammenda ed una responsabilità civile solidale dell'ente in caso di insolvibilità dell'autore di un illecito amministrativo commesso nell'interesse della persona giuridica condannato al pagamento di una sanzione amministrativa di tipo pecuniario.
Vi è anche chi, prescindendo dal concetto di colpevolezza, richiamando la giurisprudenza anglosassone, afferma che la società ha una propria coscienza e volontà, coincidente con quella dei suoi organi che sono, il "cervello" dell'ente; anche la finalità educativa della pena può trovare soddisfacimento nel fatto che comminando una sanzione penale a carico dell'ente, certamente non di tipo detentivo, si previene la commissione di ulteriori reati da parte degli stessi soggetti che rappresentano l'ente.
Basti pensare a reati come quelli in materia fiscale, previdenziale, di salute collettiva, di sicurezza sul lavoro e di ambiente. In tali settori l'erogazione di una pena ad un amministratore o ad un dipendente implicherebbe una inaccettabile semplificazione dell'accertamento delle responsabilità penali. Così procedendo, si sottovaluterebbe l'impatto sociale della criminalità societaria perché i reati commessi dagli organi della società sovente non sono il frutto dell'iniziativa individuale, ma scaturiscono da decisioni maturate all'interno dell'ente stesso, il quale agisce non come strumento di realizzazione di un crimine altrui, ma come soggetto agente rispetto a fatti di rilevanza penale.

Evoluzione legislativa in materia di responsabilità delle persone giuridiche

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Una previsione normativa settoriale che ha previsto conseguenze di carattere latamente penale a carico dell'ente nel caso di commissione di reati è rappresentata dall'entrata in vigore della legge 7 marzo 199, n. 108, nota come legge "anti-usura", che all'art. 1 prevede una speciale ipotesi di confisca obbligatoria di beni posseduti dal condannato per il delitto di cui all'art. 644 c.p. "anche per interposta persona".
Più significativo è stato, invece, l'apporto di alcuni recenti disegni di legge. Con il progetto Mirone è stato elaborato un disegno di legge delega riguardante la riforma delle società quotate. L' art. 10, lett. h) del progetto prevede che, qualora uno dei reati societari previsti venga commesso nell'interesse della società da amministratori, direttori generali o sindaci, l'ente debba essere chiamato a rispondere mediante l'applicazione diretta di una sanzione pecuniaria, espressamente definita amministrativa.
Anche a livello sovranazionale vi sono state numerose prese di posizione favorevoli all'affermazione della responsabilità delle persone giuridiche. A livello comunitario, fin dal 1988, il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa ha adottato una raccomandazione con la quale ha invitato gli Stati membri a promuovere l'adozione di misure finalizzate a rendere le imprese responsabili dei reati commessi nell'esercizio della loro attività. A seguito di tale raccomandazione sono state istituite numerose convenzioni da parte degli Stati, tutti finalizzati nella stessa direzione. Si tratta della Convenzione sulla tutela finanziaria delle Comunità Europee, conclusa a Bruxelles il 26 luglio 1995 (c.d. Convenzione P.I.F.), che ha impegnato i singoli Stati membri ad introdurre misure idonee a combattere le frodi fiscali ai danni della Comunità (si pensi all'introduzione dell'art. 640-bis c.p.).
A tali sollecitazioni il legislatore italiano ha risposto con l'introduzione del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Con l'introduzione di tale norma la responsabilità degli enti diventa una responsabilità autonoma che si aggiunge a quella della persona fisica che ha commesso il reato. Si tratta di un'autonomia quasi assoluta al punto che la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è stato identificato o non è imputabile. Le disposizioni di tale normativa non vengono applicate allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale. La norma non viene applicata nemmeno alle imprese individuali, così come anche indicato da Cass., Sez. VI, 3 marzo 2004, n. 18941; Trib. Roma, ord. 30 maggio 2003.

I requisiti di natura oggettiva

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Il primo criterio d'imputazione dell'illecito del soggetto collettivo opera sul piano obiettivo e consiste nel reato commesso da una persona fisica (in posizione apicale o subordinata nell'ambito della struttura dell'ente)nell'interesse o a vantaggio del medesimo soggetto collettivo. Dalla lettura dell'art. 5 del D.lgs. 231/2001 si legge "L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a). 2 L'ente non risponde se le persone indicate al comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo, proprio o di terzi".
Praticamente occorre che l'accertamento della responsabilità dell'ente si rileva dalla commissione o (anche solo) il tentativo di commissione da parte di una persona fisica di un determinato reato-presupposto. Per cui, non ogni fatto comporta la responsabilità dell'ente, ma solo quelli espressamente previsti dal decreto, in ottemperanza al principio di legalità. E' indispensabile che il reato sia ed esso riconducibile in base ad un profilo tanto oggettivo, quanto soggettivo.
Il reato presupposto non deve essere commesso da un qualsiasi soggetto che faccia parte della struttura organizzativa dell'ente, ma deve trattarsi necessariamente di una persona fisica che ha i requisiti di cui al predetto articolo 5.
La legge richiede che la commissione del reato risponda ad un interesse o vantaggio per l'ente. Cass., Sez. II, 30 gennaio 2006, n. 3615, per il quale "In tema dei reati 'nel suo interesse o a suo vantaggio' non contiene una endiadi, perché i termini hanno riguardo a concetti giuridicamente diversi, potendosi distinguere un interesse a monte, per effetto di un indebito arricchimento, in conseguenza dell'illecito, da un vantaggio obiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppur non prospettato ex ante, sicché l'interesse ed il vantaggio sono in concorso reale".
Va, inoltre, sottolineato che non è richiesto che la condotta delittuosa venga posta in essere nell'esclusivo interesse dell'ente. Infatti, anche in caso di interesse prevalente, ma non esclusivo, del soggetto agente sussiste la responsabilità dell'ente, il quale beneficia di uno sconto di pena, art. 12, comma , lett. a); mentre, come visto, il comma 2 dell'art. 5 esclude tale responsabilità se le persone indicate al comma 1 abbiano agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi.
E' necessario, inoltre, far presente che il criterio dell'interesse e il criterio del vantaggio sono stati originariamente concepiti sul modello dell'illecito doloso, tant'è che sorgono dubbi sull'adattabilità col modello dell'illecito colposo, qual è quello che caratterizza non solo i delitti di cui all'articolo. 25 septies d.lgs. 231/2001, in materia di sicurezza sul lavoro, ma anche i reati di cui all'art. 25-undicies del medesimo decreto, che ricomprende nel catalogo dei reati presupposto illeciti contravvenzionali, i quali, a norma dell'art. 42, comma 4, c.p., possono essere realizzate con condotte sia dolose che colpose.
Nella giurisprudenza di merito, sul versante della sicurezza del lavoro, si afferma non solo tanto l'interesse quanto il vantaggio che devono essere interpretati in senso alternativo e oggettivo, ma soprattutto in sede giudiziale i reati devono essere accertati con riferimento alla condotta colposa che ha generato l'evento infortunistico. Si deve cioè accertare se è con la condotta colposa che la persona fisica agente ha perseguito l'interesse o conseguito il vantaggio per l'ente. La condotta deve possedere un contenuto economico. In buona sostanza la violazione della normativa antinfortunistica deve essere volta al perseguimento della finalità del profitto o della riduzione dei costi. Trib. Cagliari, 4 luglio 2011; Trib. Torino, 15 aprile 2011; Trib. Trani, Sez. Dist. Molfetta, 26 ottobre 2009.

Il sistema sanzionatorio

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Gli strumenti punitivi degli illeciti delle persone giuridiche, previsti dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, come indicati dall'art. 9 e ss.
Le sanzioni per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato si distinguono in sanzioni pecuniarie, sanzioni amministrative, confisca e pubblicazione della sentenza.
Ai sensi dell'art. 10, in ogni illecito amministrativo dipendente da reato si applica sempre la sanzione pecuniaria. Per la sua applicazione si ricorre al sistema delle quote, che variano da un minimo di cento ad un massimo di mille. Ogni quota ha un valore compreso tra un minimo di euro 258 ad un massimo di euro 1.549. Il giudice, per quanto riguarda la definizione del numero di quote, dovrà tenere conto: della gravità del fatto, del grado di responsabile dell'ente, nonché dell'attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto o per prevenire la commissione di ulteriori illeciti.

Avv. Maurizio Auteri
Studio.tributario.meloni.auteri@gmail.com


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