Per la Cassazione, commette reato di esercizio abusivo della professione l'avvocato sospeso che si limita a rivedere e correggere l'atto redatto dal praticante

Esercizio abusivo della professione

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Per integrare il reato di esercizio abusivo della professione da parte di un avvocato sospeso dalla stessa, è sufficiente che costui revisioni il decreto ingiuntivo redatto dal praticante, non occorre infatti che ponga in essere lui direttamente la condotta vietata e neppure che eserciti atti tipici della professione in modo continuativo e organizzato. Queste le conclusioni contenute nella sentenza n. 1931/2021 (sotto allegata) della Cassazione a chiusura della vicenda che si va a illustrare.

La Corte d'Appello conferma la decisione del giudice di primo grado che ha condannato per esercizio abusivo della professione e per due truffe aggravate un avvocato. Condotte commesse ai danni delle stesse persone e per le quali il giudice dell'impugnazione ha rideterminato la pena in 11 mesi di reclusione e 700 euro di multa, dichiarati estinti per prescrizione dei reati residui.

C'è esercizio abusivo se l'atto è redatto da un altro avvocato?

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L'imputato ricorre in Cassazione sollevando i seguenti motivi al fine di ottenere l'annullamento della sentenza.

  • Con il primo motivo, in relazione al reato di esercizio abusivo della professione, l'imputato contesta la erronea applicazione dell'art. 348 c.p e dell'art 2. commi 5 e 6 della legge n. 247/2012, ritenendo di non aver posto in essere un atto tipico della professione vietato durante il periodo di sospensione e di non aver esercitato attività professionale tipica con continuità, sistematicità e organizzazione. L'attività relativa al decreto ingiuntivo
    per il recupero del credito infatti è stata svolta da un altro avvocato, che ha curato anche i rapporti con i clienti. Censura inoltre la motivazione della sentenza che ha attribuito erroneamente l'attività di redazione del decreto ingiuntivo allo stesso.
  • Con il secondo motivo, relativo al capo d'imputazione che si riferisce alla prima condotta di truffa aggravata, il ricorrente lamenta l'erronea applicazione dell'art. 640 c.p. perché i giudici non hanno considerato l'insussistenza dell'ingiusto profitto con danno altrui.
  • Con il terzo, che si riferisce al secondo episodio di truffa aggravata, il ricorrente contesta nuovamente l'erronea applicazione dell'art. 640 c.p. perché il giudice non ha tenuto conto delle dichiarazioni dell'imputato, da cui è emerso che la somma non ha costituito "il provento di una truffa, ma la richiesta di un legittimo compenso per l'attività professionale stragiudiziale svolta, a stesso dire del giudice, con esito favorevole."

Esercizio abusivo anche se il decreto è redatto dal praticante

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La Corte di Cassazione si pronuncia sul ricorso dell'avvocato imputato con la sentenza n. 1931/2021 dichiarando il ricorso inammissibile per le ragioni che si vanno a esporre.

Per la cassazione il primo motivo relativo al reato di esercizio abusivo della professione contemplato dall'art. 348 c.p. è inammissibile perché il motivo sollevato invoca la rilettura del merito della vicenda, preclusa in sede di Cassazione.

Dall'esame degli atti è risultato in ogni caso che sia la redazione del decreto che il rapporto con i clienti è stato gestito dall'imputato. La rilevanza penale della condotta "non sarebbe stata inficiata neppure dalla circostanza, riferita dal solo imputato, che la bozza del ricorso sarebbe stata preparata da (omissis), praticante dello studio che si atteneva alle direttive di (omissis), privo di titolo idoneo: in ogni caso, quella bozza sarebbe stata corretta, rivista e fatta propria dal ricorrente, che poi la inviò alla società e quindi all'avvocato (omissis) limitatasi ad approvarne il contenuto (e pure la firma apocrifa)." Il ricorrente ha dunque compiuto un atto tipico della professione forense, che non si può considerare come mera consulenza legale.

La Corte precisa anche che, contrariamente a quanto sostenuto dall'imputato, quel solo atto, anche se di natura istantanea ha rilevanza penale, in quanto secondo il diritto vivente, il reato di esercizio abusivo della professione non richiede per la sua integrazione un esercizio continuativo e organizzato, bastando il compimento di un solo atto tipico o proprio della professione abusiva esercitata.

Manifestamente infondata la doglianza relativa alla condotta di truffa. L'imputato ha omesso di riferire di essere stato sospeso dall'attività, consentendogli così di ricevere l'incarico per il recupero credito, per il quale ha conseguito il profitto, ossia il compenso ricevuto e a cui non avrebbe avuto diritto. Priva di pregio anche la contestazione relativa all'altra condotta di truffa, avendo la corte dato credito alla versione dei fatti fornita dalle persone offese e non a quella dell'imputato, tra l'altro confusa e generica e con cui ha dichiarato di aver trattenuto legittimamente la somma in contestazione a titolo di compenso per l'attività svolta.

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Scarica pdf Cassazione n. 1931/2021

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