La pronuncia del Dott. Domenico Potetti del Tribunale di Macerata dell'8 luglio 2020 affronta il caso del delitto di maltrattamenti quale prosieguo di condotta abituale già iniziata da tempo
La pronuncia del Tribunale di Macerata, Sezione GIP-GUP, dell'8 luglio 2020 che abbiamo il piacere di pubblicare stamani in versione inedita è opera del Dott. Domenico Potetti, autorevole pubblicista, che affronta il caso in cui per il delitto di maltrattamenti, avente ad oggetto fatti che rappresentano la mera prosecuzione di una condotta abituale già iniziata da tempo, pende già procedimento penale.

Buona lettura!

TRIBUNALE DI MACERATA, Sezione GIP/GUP, 8 luglio 2020, giudice dott. Domenico Potetti, imputato X

"E' preclusa (con conseguente archiviazione o sentenza di proscioglimento, secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite n. 34655 del 2005) al pubblico ministero l'azione penale per il delitto di maltrattamenti, avente ad oggetto fatti che rappresentano la mera prosecuzione di una condotta abituale di maltrattamenti già iniziata da tempo e per la quale già pende procedimento penale, a prescindere dal fatto che in quest'ultimo sia stata già esercitata l'azione penale. In questo caso il pubblico ministero dovrà, invece, nel precedente procedimento già pendente prendere atto che la condotta di maltrattamenti risulta prolungata e quindi tecnicamente "diversa" da quella precedentemente contestata e, ove il procedimento precedente fosse giunto alla fase processuale, dovrà in quella sede adeguare l'imputazione alle nuove risultanze di fatto, nelle forme previste dagli artt. 423, 516 e 521 c.p.p.).

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Poiché deve intendersi per "malattia" un processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell'assetto funzionale dell'organismo, le mere alterazioni anatomiche che non interferiscano in alcun modo con il profilo funzionale della persona non possono integrare la nozione di "malattia", correttamente intesa secondo l'art. 582 c.p.

Omissis.

1) I fatti in sintesi.

1.1 … proponeva formale querela contro l'imputato (suo figlio) in data 22 ottobre 2019, dichiarando in sintesi quanto segue.

A seguito di reiterati comportamenti aggressivi, violenti e minacciosi contro la sua persona e contro il mobilio di casa, posti in essere dall'imputato per via del suo precario stato psicofisico, in cui si trova a causa della condizione di dipendenza da sostanze stupefacenti delle quali fa uso da molti anni, dichiarava di essere stata costretta a denunciarlo più volte all'autorità giudiziaria e da ultimo il sabato precedente, 19 ottobre 2019.

Aveva quindi chiesto e ottenuto dal giudice un provvedimento di allontanamento con divieto di avvicinamento alla casa familiare, a lei stessa, e ai nonni materni; provvedimento notificatogli nel mese di luglio scorso.

Nonostante il provvedimento l'imputato, non osservandolo, aveva continuato a frequentare la casa, tanto che la donna si era vista costretta (al fine di evitare ulteriori conseguenze sulla sua persona) ad allontanarsene e ad andare ad abitare in un'altra abitazione di suoi conoscenti…

Quella mattina, alle ore 5:00, sapendo che spesso suo figlio non si sveglia quando deve fare il turno di mattina in fabbrica, lo aveva chiamato, solo facendo squillare il suo cellulare, per dargli la sveglia.

Alle ore 8:00 successive l'imputato, in evidente stato depressivo, la richiamava al cellulare dicendole, piangendo, che non si era svegliato, che lo avrebbero licenziato in seguito alle pregresse simili mancanze, che non voleva più vivere, che era inutile andare a lavorare se poi sprecava tutto in droghe.

Aveva cercato di rassicurarlo telefonicamente, chiudendo la conversazione.

Poco dopo l'imputato le telefonava nuovamente dicendole che aveva preso un coltello e se lo era infilzato nella pancia per suicidarsi.

Allarmata, aveva chiamato il 118 e si era recata a casa dove abitava l'imputato.

Entrata in casa con il personale del 118 avevano trovato l'imputato sul letto, con dei coltelli di grosse dimensioni che utilizzava per mimare accoltellamenti all'addome.

L'imputato iniziava poi in modo isterico (nonostante il personale del 118 cercasse di calmarlo) a minacciarla con diverse frasi, ad ingiuriarla pesantemente e a colpirla ripetutamente con pugni e calci alla schiena, al capo e alle gambe, nel mentre rompeva porte e suppellettili.

Le aveva anche buttato una bottiglia di acqua in testa rincorrendola mentre cercava di rifugiarsi in bagno, con uno dei grossi coltelli in mano.

Si era quindi chiusa in bagno, ma l'imputato aveva cercato di sfondare la porta con pugni e calci, provocandone la parziale rottura.

Prima che la donna si chiudesse in bagno, l'imputato le aveva rubato dalla borsa (che la persona offesa aveva momentaneamente poggiato sul tavolo da cucina) il portamonete, estraendone il bancomat e mettendoselo in tasca, nonostante che lei lo avesse vigorosamente diffidato dal farlo.

Durante le concitate fasi dell'aggressione il personale del 118 richiedeva al 112 il loro intervento, così come aveva fatto lei stessa una volta chiusa in bagno.

Successivamente si era recata presso il locale punto di pronto intervento, dove le avevano formulato una prognosi di giorni 10 (dieci) per "Traumi contusivi alla schiena ed all'arto inferiore sinistra da aggressione testimoniata da persona a lei nota" (vedasi infatti il certificato medico in atti).

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1.2 Dall'annotazione di polizia giudiziaria del 22 ottobre 2019 risulta che anche durante la traduzione in carcere dell'imputato (a seguito dell'arresto subito a causa dei fatti di cui sopra) quest'ultimo più volte minacciava la madre di morte dicendo che aveva intenzione, appena uscito dal carcere, di picchiare la madre sino alla morte, di volerla prendere a gomitate in bocca, affermando che se la stessa fosse andata a trovarlo in carcere avrebbe voluto ammazzarla di botte (il giovane profferiva dette frasi con molto astio e nervosismo, asserendo che era la madre la causa dei suoi problemi).

L'imputato spontaneamente consegnava alla polizia giudiziaria una carta di credito e una tessera bancomat, che la… riconosceva come quelle a lei sottratte dall'imputato la mattina del 22 ottobre 2019.

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1.3 … (medico di emergenza del 118) rendeva dichiarazioni lo stesso 22 ottobre 2019.

Confermava sostanzialmente le dichiarazioni della ….

Riferiva di un forte pugno che l'imputato aveva dato alla madre, colpendola alla schiena; di 4 o 5 coltelli grossi da cucina poggiati sul letto; delle urla dell'imputato contro la madre che li avevano indotti a chiedere l'intervento dei carabinieri.

Riferiva che l'imputato aveva reiteratamente insultato e minacciato di morte la madre.

Riferiva altresì che l'imputato, alzatosi dal letto, insultava la madre e la minacciava, chiedendole di dargli la borsa, la quale si trovava appoggiata su una poltrona; quindi l'imputato la apriva, asportando il portafogli e qualcosa che era all'interno della borsa.

La madre chiedeva all'imputato la restituzione di quanto aveva preso, ma quest'ultimo non le restituiva alcunché, ed anzi le sferrava un calcio sulla gamba sinistra con violenza, tanto da farla accasciare a terra per il dolore.

Anche dopo la somministrazione di un calmante, l'imputato continuava ad essere aggressivo nei confronti della madre, tanto che su loro richiesta la donna si chiudeva all'interno del bagno, poiché il figlio tentava di avvicinarla tenendo in mano un coltello da cucina di grosse dimensioni.

Solo intervento dell'infermiere lo faceva desistere.

Rendeva dichiarazioni anche tale …, confermando sostanzialmente gli avvenimenti di cui sopra (trattasi di operatore della Croce gialla…).

Il … confermava l'esistenza di 4 o 5 coltelli da cucina di grosse dimensioni sopra il letto; gli insulti rivolti alla madre e il tentativo di avvicinarsi alla madre con il coltello; le percosse in varie parti del corpo che l'imputato aveva inferto alla madre, la quale veniva invitata a rifugiarsi nel bagno in attesa dell'arrivo dei carabinieri.

Riferiva che ad un certo punto l'imputato, vista la borsa della madre sul tavolo, l'apriva frugando all'interno della stessa.

La madre, vedendo quanto accadeva, diceva al figlio che non c'erano soldi all'interno della borsa; ma l'imputato sottraeva il bancomat e, alla richiesta della madre di ridarglielo, questi non l'ascoltava affatto, mettendoselo in tasca.

Rendeva dichiarazioni anche tale …, infermiere del 118.

Egli confermava in particolare gli insulti dell'imputato ai danni della madre; riferiva che a un certo punto improvvisamente l'imputato colpiva con un forte pugno la madre alla schiena e la minacciava di morte; confermava l'esistenza di 4 o 5 grossi coltelli appoggiati sul letto (coltelli da cucina).

Accadeva che l'imputato, dopo aver insultato la madre, la minacciava chiedendole di dargli la borsa che si trovava appoggiata su una poltrona; poi l'apriva prendendo il portafogli e qualcosa che era all'interno del portafogli.

La madre chiedeva la restituzione di quanto aveva preso l'imputato, ma quest'ultimo le sferrava un calcio sulla gamba sinistra con violenza, tanto che la madre si accasciava a terra per il dolore.

Anche dopo la somministrazione di un calmante l'imputato continuava ad essere aggressivo nei confronti della madre, che veniva consigliata di chiudersi all'interno del bagno, poiché il figlio tentava di avvicinarla tenendo in mano un coltello da cucina di grosse dimensioni; solo l'intervento del dichiarante lo faceva desistere dall'avventarsi sulla madre.

Specificava che l'imputato che ad un certo punto, vista la borsa della madre sul tavolo, la apriva e frugava nella stessa.

La madre, vedendo quanto accadeva, diceva al figlio che non c'erano soldi all'interno; ma l'imputato sottraeva il bancomat, e alla richiesta della madre di ridarglielo non l'ascoltava, mettendoselo in tasca.

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1.4 La polizia giudiziaria intervenuta rilevava evidenti danni alla porta di ingresso del bagno e ritrovava le due carte di pagamento addosso all'imputato.

Sul letto in cui aveva dormito l'imputato medesimo, all'altezza del cuscino, sono stati ritrovati e sequestrati cinque coltelli da cucina, in metallo, di medie-grosse dimensioni.

Si constatava che l'imputato aveva provocato notevoli danni al mobilio e ai tramezzi in muratura dell'immobile.

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2) Soluzione delle questioni di responsabilità.

2.1 Per quanto riguarda il delitto di maltrattamenti, per esso l'imputato dovrebbe essere comunque assolto nel merito, poiché relativamente a questo capo di imputazione vi sono solo generiche dichiarazioni della madre, non approfondite, tanto che questo giudicante non sarebbe comunque in grado di affermare, con ragionevole certezza l'esistenza degli elementi costitutivi di tale delitto, specie sotto il profilo dell'abitualità della condotta e dell'elemento soggettivo del medesimo (elemento soggettivo che funziona da fattore unificante dei vari atti di maltrattamento).

Infatti, gli unici elementi accertati al di là di ogni ragionevole dubbio sono quelli del 22 ottobre 2019.

Ritiene tuttavia questo giudicante di non poter nemmeno scendere nell'esame del merito di tale capo di imputazione per un motivo in rito.

Risulta infatti, sia pure in modo non particolarmente approfondito, che a carico dell'imputato già pendeva, al momento dei fatti accaduti il 22 ottobre 2019, un procedimento per il delitto di maltrattamenti, nell'ambito del quale l'imputato era addirittura stato sottoposto a misura cautelare personale.

È stata la stessa madre dell'imputato (persona offesa) a riferire di essere stata costretta a denunciarlo più volte all'autorità giudiziaria e da ultimo il sabato precedente, 19 ottobre 2019.

Da ciò si evince che il precedente procedimento, già pendente, per maltrattamenti, riguarda fatti di poco precedenti rispetto a quelli qui giudicati, tanto che appare evidente come quelli del 22 ottobre 2019 sono atti strettamente avvinti a quelli precedenti dall'ipotizzato vincolo della abitualità.

Del resto, lo stesso pubblico ministero, al Capo A), contesta una condotta che si sarebbe svolta dal 17 luglio 2019, in modo permanente proprio fino al 22 ottobre 2019, e quindi senza soluzione di continuità.

Ed ancora, lo stesso pubblico ministero, nel richiedere la convalida dell'arresto e l'applicazione della custodia cautelare in carcere in questo procedimento, riferiva che l'imputato era già sottoposto a procedimento penale per analoghe condotte criminose poste in essere fino alla data del 16 luglio 2019, e come tale era già sottoposto alla misura cautelare dell'allontanamento dalla casa familiare con divieto di avvicinarsi alla madre.

Ciò posto ritiene questo giudicante che era preclusa al pubblico ministero l'azione penale in questa sede per il delitto di maltrattamenti, avente ad oggetto i fatti del 22 ottobre 2019; fatti che rappresentano semplicemente la prosecuzione di una condotta abituale di maltrattamento, almeno secondo la prospettazione dello stesso pubblico ministero.

Il pubblico ministero dovrà invece nel precedente procedimento già pendente prendere atto che la condotta di maltrattamenti risulta prolungata e quindi tecnicamente "diversa" da quella precedentemente ipotizzata e, ove il procedimento precedente fosse giunto alla fase processuale dovrà in quella sede adeguare l'imputazione alle nuove risultanze di fatto (v. artt. 423, 516, 521 c.p.p.)

L'art. 335, co. 1, c.p.p., prevede infatti che il pubblico ministero iscrive nell'apposito registro la notizia di reato nonché, contestualmente o successivamente, dal momento in cui risulta, il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito.

Nel successivo comma secondo è chiaramente previsto che se nel corso delle indagini preliminari muta la qualificazione giuridica del fatto ovvero questo risulta diversamente circostanziato il pubblico ministero cura l'aggiornamento delle iscrizioni previste dal primo comma, senza procedere (cioè con divieto di procedere) a nuove iscrizioni.

Se dunque è fatto divieto al pubblico ministero di procedere a nuova iscrizione (e quindi alla promozione di un nuovo procedimento) quando sopravvengano circostanze del reato (elementi accidentali ed esterni alla condotta criminosa), a maggior ragione il pubblico ministero non può procedere a nuova iscrizione quando (ferma restando l'identità del fatto nel suo nucleo essenziale) sopravvengano mutamenti (anch'essi in senso lato circostanziali) attinenti in particolare al tempo e al luogo del fatto già iscritto.

Ciò rileva particolarmente nei reati permanenti e in quelli abituali (es. art. 572 c.p.), in cui può risultare successivamente alla prima iscrizione una più estesa permanenza o una più estesa abitualità.

Si è infatti ritenuto che quando sia stata iscritta una notizia di reato a carico di una determinata persona il p.m. non è facoltizzato a procedere nei confronti di essa a nuova iscrizione per il medesimo reato e nell'ipotesi in cui ciò si verifichi rimane comunque immutata la decorrenza dei termini per le indagini preliminari dalla data della primitiva iscrizione ed alla relativa scadenza scatta la sanzione di inutilizzabilità degli ulteriori atti compiuti; e che a nuova iscrizione può procedersi solo quando pervenga, a carico del soggetto già iscritto, una notizia relativa ad un diverso (distinto: n.d.r.) reato oppure, in relazione al medesimo reato, vengano indicati ulteriori autori (v. Cass., n. 4440 del 1998).

Del resto, opinando diversamente, non solo si consentirebbe al pubblico ministero di svolgere indagini sia nel primo che nel secondo procedimento sulla stessa unitaria condotta dell'imputato (violando fra l'altro i termini massimi dell'indagine), ma si consentirebbe in astratto la possibilità di provvedimenti (non solo del pubblico ministero, ma) anche giurisdizionali (in particolare quelli emessi eventualmente dal GIP su richiesta del PM nel corso di ciascuno dei distinti procedimenti) in contrasto fra loro (si pensi ad esempio al caso del pubblico ministero il quale, innanzi ad un rigetto di una sua istanza nel primo procedimento, la reiteri tal quale nel secondo, confidando magari in un diverso magistrato giudicante).

Tutto quanto detto induce a ritenere l'esistenza di una preclusione posta al pubblico ministero rispetto a successive seriali iscrizioni nel registro delle notizie di reato dello stesso fatto, quando esso sia in senso lato diversamente circostanziato (in ciò comprendendo anche l'estensione della permanenza o dell'abitualità del reato).

Questa preclusione è quella che impone al giudice l'archiviazione o una sentenza di proscioglimento, secondo la notissima sentenza delle Sezioni Unite n. 34655 del 2005.

Il caso affrontato con essa era quello di una pregressa sentenza di condanna non ancora passata in giudicato, ma il concetto di preclusione elaborato da quelle Sezioni unite va oltre il caso di avvenuto esercizio dell'azione penale.

Le Sezioni unite invocavano infatti l'esigenza di trovare un rimedio atto ad eliminare patologie processuali fonti di gravi pregiudizi per l'ordine e la funzionalità dei procedimenti e tali da determinare la violazione del diritto dell'imputato a non essere più volte perseguito per il medesimo fatto, e indicavano per la soluzione del problema la via dell'art. 12, comma 2, Preleggi (analogia e principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato).

E per questa via le Sezioni Unite trovavano nell'art. 649 c.p.p. un singolo, specifico, punto di emersione del principio del ne bis in idem, che permea l'intero ordinamento, generando un preciso divieto di reiterazione dei procedimenti e delle decisioni sull'identica regiudicanda, in sintonia con le esigenze di razionalità e di funzionalità connaturate al sistema.

A tale divieto va attribuito, pertanto, secondo le Sezioni Unite, il ruolo di principio generale dell'ordinamento dal quale, a norma del secondo comma dell'art. 12 delle Preleggi, il giudice non può prescindere quale necessario referente dell'interpretazione logico - sistematica.

Questo divieto del bis in idem va ricondotto, secondo le Sezioni Unite, alla categoria delle preclusioni processuali, ben nota alla teoria generale del processo, sia civile che penale.

L'esattezza di questa qualificazione è confermata dalla considerazione che il divieto di cui all'art. 649 c.p.p. è esso stesso nient'altro che una preclusione: quella finale che si consolida a chiusura del processo.

Prima di esplicarsi quale limite estremo segnato dal giudicato, la preclusione assolve la funzione di scandire i singoli passaggi della progressione del processo e di regolare i tempi e i modi dell'esercizio dei poteri delle parti e del giudice, dai quali quello sviluppo dipende, onde la preclusione rappresenta il presidio apprestato dall'ordinamento per assicurare la funzionalità del processo in relazione alle sue peculiari conformazioni risultanti dalle scelte del legislatore.

È comune in dottrina l'opinione che l'istituto della preclusione, attinente all'ordine pubblico processuale, è intrinsecamente qualificato dal fatto di manifestarsi in forme differenti, accomunate dal risultato di costituire un impedimento all'esercizio di un potere del giudice o delle parti in dipendenza dell'inosservanza delle modalità prescritte dalla legge processuale, o del precedente compimento di un atto incompatibile, ovvero del pregresso esercizio dello stesso potere.

In quest'ultima ipotesi la preclusione è normalmente considerata quale conseguenza della consumazione del potere.

Proprio la figura della preclusione come consumazione del potere offre la chiave per risolvere la questione relativa all'applicabilità della regola del ne bis in idem alle situazioni di litispendenza, in fasi o in gradi diversi, di procedimenti dinanzi ad uffici della stessa sede giudiziaria.

Sostengono le Sezioni Unite che il "giusto processo" (art. 111 Cost.), nella sua impronta tipicamente accusatoria, richiede non solo la rispondenza alle regole della ragionevole durata del processo e della parità delle parti, ma sottende altresì, in armonia con le principali fonti normative internazionali, il diritto dell'imputato a non essere perseguito più di una volta per l'identico fatto.

La preclusione conseguente alla consumazione del potere di azione determina la dichiarazione di impromovibilità dell'azione penale, quale epilogo necessitato del secondo processo, restando, così, confermato il principio per cui le condizioni di procedibilità non si esauriscono in quelle espressamente enumerate nel titolo III del libro V del c.p.p. (v. C. cost., n. 318-01).

Di talché al secondo giudice non resta che pronunciare sentenza di non doversi procedere a norma dell'art. 529 c.p.p. o di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p., ovvero, qualora l'azione penale non sia stata ancora esercitata, decreto di archiviazione per impromovibilità dell'azione stessa.

Le precedenti osservazioni, tratte dalla sentenza delle Sezioni unite non distinguono, nell'ambito della categoria della preclusione per consumazione del potere, fra esercizio dell'azione penale e altri poteri esercitati dal pubblico ministero (compresi quelli cautelari, che rappresentano un potere particolarmente importante).

E del resto, C. cost. n. 27 del 1995 applicava il principio della preclusione anche in mancanza di previo esercizio dell'azione penale (nel caso trattavasi di previa archiviazione non seguita da autorizzazione alla riapertura delle indagini: art. 414 c.p.p.).

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2.2 Le percosse inferte dell'imputato alla madre sono ampiamente provate dal materiale istruttorio in atti.

Vi sono infatti in tal senso sia le dichiarazioni della persona offesa che quelle degli spettatori intervenuti nella casa dove abitava l'imputato, sia la certificazione medica in atti.

Ritiene tuttavia questo giudicante che la condotta dell'imputato vada qualificata non come lesioni, ma come percosse.

Non risulta infatti che la … abbia subìto un'apprezzabile limitazione funzionale a causa delle percosse ricevute.

Per contro, secondo le Sezioni unite, n. 2437 del 2008 (sentenza depositata nel 2009) il concetto di "malattia" rinvia ad un parametro normativo extragiuridico, di matrice chiaramente tecnico-scientifica, derivato dal settore della esperienza medica.

Poiché, dunque, la scienza medica può dirsi da tempo concorde (al punto da essere stata ormai recepita a livello di communis opinio) nell'intendere la "malattia" come un processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell'assetto funzionale dell'organismo, ne deriva che le mere alterazioni anatomiche che non interferiscano in alcun modo con il profilo funzionale della persona non possono integrare la nozione di "malattia", correttamente intesa (conf. Cass., Sez. IV, sentenza 24 novembre 2015-2 febbraio 2016, n. 4339).

Il delitto di percosse non è assorbito da quello di rapina, o almeno non del tutto, poiché dallo svolgimento dei fatti risulta abbastanza chiaramente che furono inferte alla vittima plurime percosse, delle quali solo alcune finalizzate alla rapina.

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2.3 Risulta pacificamente la consumazione del delitto di rapina (il quale ovviamente è escluso dall'esimente di cui all'art. 649 del codice penale, così come previsto dall'ultimo comma di tale articolo).

È infatti pacifico che l'imputato per procurarsi un ingiusto profitto (consistente nella detenzione delle carte di pagamento), mediante violenza alla persona e minacce, s'impossessava di tali carte di pagamento sottraendole a sua madre che le deteneva.

Si evince anche dal materiale istruttorio che lo stesso imputato adoperò violenza e minacce anche immediatamente dopo la sottrazione delle carte di pagamento, per assicurarsene il possesso.

La condotta rivela abbastanza evidentemente che l'imputato agì per procurarsi un profitto economico (a prescindere dal fatto che poi le carte di pagamento potessero, oppur no, procurarglielo).

Ma anche a voler ritenere, per ipotesi di lavoro, che l'imputato non perseguisse un profitto di natura economica, di dovrebbe rilevare che i delitti di furto, rapina e appropriazione indebita si inseriscono nel noto orientamento interpretativo che identifica nel profitto un qualsivoglia vantaggio di qualunque natura (qualsiasi utilità o soddisfazione, anche di natura esclusivamente sentimentale) (v. Cass., Sez. II, 21 aprile 1995, in Diritto penale e processo, 1996, p. 984; per il furto v. Cass., n. 39104 del 2009 e n. 40631 del 2012; per la rapina v. Cass., n. 49265 del 2012 e n. 11467 del 2015).

A proposito della restituzione della refurtiva alla … poco dopo la rapina, giova aggiungere che il reato di rapina si consuma nel momento in cui la cosa sottratta cade nel dominio esclusivo del soggetto agente, anche se per breve tempo e nello stesso luogo in cui si è verificata la sottrazione, e pur se, subito dopo il breve impossessamento, il soggetto agente sia costretto ad abbandonare la cosa sottratta per l'intervento dell'avente diritto o della forza pubblica (v. Cass., n. 5512 del 2014, n. 7500 del 2017, n. 14305 del 2017).

omissis

Il Giudice Dott. Domenico Potetti

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