Per la Suprema Corte, i dati informatici costituiscono beni che, grazie alle loro caratteristiche, rientrano all'interno della categoria penalistica dei beni mobili

Reato sottrarre file sono "cose mobili"

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Fino a poco tempo fa alla domanda "posso essere penalmente sanzionato per aver sottratto dei files da un computer?" la risposta doveva essere di segno negativo.
Tuttavia, sulla scia di alcune pronunce che negli anni passati hanno timidamente iniziato a manifestare l'intenzione di un "dietro front" da parte della giurisprudenza di legittimità, con la sentenza del 13 aprile 2020, n. 11959, la Cassazione Penale, Sez. II, ha definitivamente sancito in termini inequivocabili la natura di beni mobili dei files informatici, enucleandone le ragioni con inedita sistematicità.
In tale occasione la Suprema Corte ha infatti affermato il principio secondo cui: «I dati informatici, contenenti files, sono qualificabili "cose mobili" ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale, affidato per motivi di lavoro, dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer "formattato"».

Svolta importante della Cassazione

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Si tratta di un'innovazione di rilevante portata in quanto il precedente consolidato orientamento era quello di considerare, ai fini penalistici, i dati informatici quali beni immateriali, escludendoli dal novero di quei beni suscettibili di divenire l'oggetto delle condotte apprensive, sottrattive e di impossessamento tipiche di molti reati contro il patrimonio.

Sulla scorta di tale considerazione veniva dunque esclusa la configurabilità, in ordine a tale tipologia di beni, di reati quali il furto e l'appropriazione indebita la cui integrazione vedeva come necessaria la realizzazione di una condotta appropriativa indirizzata in senso materiale verso un bene tangibile.

In tale frangente i soli beni immateriali rientranti nel concetto penalistico di "cosa mobile" erano - così come sono tutt'ora per espresso disposto dell'art. 624, comma 2, c.p. - l'energia elettrica e "ogni altra energia suscettibile di assumere valore economico".

Tuttavia, tanto la giurisprudenza maggioritaria quanto illustri voci dottrinali, avevano da sempre escluso l'applicabilità in via analogica di tale disposizione ad altre categorie di beni, pena la violazione dei fondamentali principi di legalità e tassatività.

Ma se questo è stato per anni l'orientamento prevalente, con la sentenza n. 11959/2020 gli Ermellini hanno invertito la rotta arrivando ad affermare, con un'argomentazione estremamente analitica, mai prospettata fino a questo momento, la natura di beni mobili dei dati informatici.

Il processo decisionale

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Una tale conclusione è stata raggiunta attraverso l'analisi di due argomenti fondamentali.

Il primo è incentrato sul rilievo per cui, a parere della Suprema Corte, i files sono insiemi di codici numerici (o meglio, codici binari, in gergo nominati "bit" dall'acronimo inglese di binary digit) tra loro collegati che occupano uno spazio più o meno esteso nei sistemi predisposti per la loro conservazione e archiviazione, in grado altresì di subire operazioni quali la creazione, la copiatura e l'eliminazione, tecnicamente registrate o registrabili dal sistema operativo.

In particolare la Corte ha evidenziato l'attitudine dei files a essere trasferiti da un supporto informatico ad un altro, mantenendo inalterati i propri connotati strutturali; ciò in aggiunta alla capacità di aumentare di dimensione proporzionalmente all'aumento delle informazioni (e dei bit) di cui essi si compongono, circostanza quest'ultima che comporta ovviamente un'estensione dello spazio digitale occupato dal file.

Secondo i giudici di Piazza Cavour, quindi, i dati informatici costituiscono beni che, pur non essendo materialmente percepibili a livello sensoriale, occupano una determinata posizione nello spazio (ancorché digitale), che hanno una determinata grandezza, misurabile sulla base di specifiche unità di misura e che possono essere spostati senza subire alterazioni da un luogo ad un altro.

Tali caratteristiche fanno sì che sia possibile sussumere detti beni all'interno della categoria penalistica dei beni mobili rispecchiando i connotati tradizionalmente individuati per gli stessi dalla giurisprudenza, ossia la possibilità di loro detenzione, sottrazione, impossessamento ed appropriazione in aggiunta alla capacità di "spostarsi autonomamente ovvero di essere trasportati da un luogo ad un altro" (ex multis, Cass. Pen. n. 6617/2017).

Ma vi è di più.

La Corte, nella pronuncia dell'aprile 2020, ha fornito un argomento ulteriore atto a svincolare la concezione giuridica di bene mobile dalla necessarietà della sua percezione sensoriale.

Oltre al riferimento al caso delle energie di cui all'art. 624, comma 2, c.p. è stato difatti evidenziato come negli ultimi anni, attesi gli sviluppi tecnologici intercorsi, anche le operazioni di trasferimento di somme di denaro, che un tempo venivano realizzate esclusivamente attraverso un'apprensione materiale del denaro da "spostare", avvengono sovente senza che si realizzi, in concreto, una materiale apprensione del denaro stesso. Di conseguenza anche i Giudici hanno inevitabilmente dovuto far fronte a tali nuove modalità di condotta iniziando a ritenere punibili per furto anche condotte nelle quali non si realizzava in alcun modo la sottrazione del bene (intesa in senso fisico) prevista dall'art. 624 c.p.

Si pensi, ad esempio, alla recente pronuncia n. 8128 del 2019 con la quale la cassazione ha ritenuto sussistente il reato di furto nei confronti di un'impiegata di una banca che, in possesso delle password aziendali, sottraeva somme di denaro dai conti correnti utilizzando esclusivamente il sistema informatico.

Da ciò la necessità di adottare un diverso angolo di visuale anche nella tutela delle vittime che si vedano sottrarre i dati informatici di loro elaborazione e proprietà, pur in assenza di alcuna "apprensione" in senso naturalistico realizzata dal reo.

Querela per appropriazione indebita

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Quindi alla luce delle argomentazioni analiticamente illustrate nella sentenza n. 11959/2020 i file devono essere ritenuti a tutti gli effetti beni mobili ai sensi della legge penale con la conseguenza che, così come accaduto nel caso oggetto della pronuncia n. 11959/2020, un soggetto che dovesse "spostare" dei files da un computer fornitogli dall'azienda presso cui è impiegato, a un dispositivo informatico di sua esclusiva proprietà, successivamente cancellandoli dal driver aziendale (così realizzando un'interversione nel possesso degli stessi) potrà essere passibile di querela per appropriazione indebita ai sensi dell'art. 646 c.p.

Avv. Roberto Gobbi

Foro di Savona

Studio Legale Gobbi & Partners S.p.A.

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Scarica pdf sentenza Cass. n. 11959/2020

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