Asimmetrie esegetiche in tema di legittima difesa Il concetto di proporzionalità, il concetto di desistenza, l'intervento della Cassazione

di Angelo Casella - Asimmetrie esegetiche in tema di legittima difesa: vediamo, innanzitutto, cosa significa "difesa". La difesa è il contrasto ad una altrui azione in qualche modo lesiva.

In una visione di generica tutela sociale, la norma regolatrice assimila l'azione di offesa contro una persona o i suoi beni a quella rivolta a terzi o alle loro proprietà.

Difendere, però, non è soltanto ostacolare, bloccare o fermare l'iniziativa altrui, in modo passivo. La norma di riferimento (art. 52 cp) parla infatti di "difesa proporzionata all'offesa" e ciò significa che questa difesa può assumere i caratteri di una contro-azione offensiva.

Il concetto di proporzionalità

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Questa difesa "attiva", dice la norma, deve però essere "proporzionata all'offesa". Ma questo concetto di "proporzionalità" conduce a risultati interpretativi relativamente sfumati e imprecisi.

Deve l'aggredito rispondere con gli stessi strumenti in possesso dell'aggressore (bastone, coltello, bottiglia rotta, catena, ecc.)? Non esattamente. Tale ipotesi sarebbe infatti improponibile nell'immanenza dell'evento. Ma, anche se così potesse essere, la reazione dell'aggredito potrebbe risultare, comunque, non proporzionata in relazione alle modalità concrete nelle quali potrebbe manifestarsi.

In realtà la norma, come è evidenziato anche dai lavori preparatori, si limita a suggerire un criterio generico complessivo che, come tale, è vago ed elastico.

Lo studio di questa "proporzione", sembrerebbe poi suggerire che la difesa debba avvenire dopo l'offesa, poiché solo quando questa è terminata e conclusa è possibile valutarla in modo compiuto e obbiettivo e stabilire così delle modalità di reazione "proporzionate".

Ciò tuttavia, oltreché sconsigliabile, annullerebbe il concetto stesso di "difesa".

Il calcolo di questa "proporzione" è quindi necessariamente rimesso alla percezione soggettiva dell'aggredito in corso d'opera, per così dire, cioè ad aggressione in atto.

Occorre dunque reagire in misura adeguata all'offesa, secondo il buon senso del buon padre di famiglia.

A cose fatte, cioè a posteriori, il Magistrato valuterà la reazione sulla base di dati oggettivi, con la bilancia della proporzionalità.

Ma, sulla scena dell'evento, l'aggredito, che non può conoscere a priori le intenzioni "finali" dell'aggressore e può solo intuirle o supporle, reagirà sulla base dell'atteggiamento di questi e delle modalità con le quali esso si presenta. Una persona visibilmente alterata, ad esempio, susciterà un livello di allarme senz'altro elevato e pertanto una reazione corrispondente.

Del pari, se si può togliere una vita anche a mani nude, quando l'aggressore si presenta addirittura in possesso di un'arma (vera o falsa), per ciò stesso suscita un elevato livello di allarme e può giustificare così una reazione violenta.

In generale, comunque, è del tutto fuori luogo pretendere che la vittima di un attacco proceda con freddo raziocinio ad accurate (e velocissime!) ponderazioni valutative di proporzionalità.

Di fatto, il soggetto aggredito approderà solo ad una valutazione eminentemente soggettiva, del tutto personale, strettamente correlata alle sue specifiche condizioni psico-fisiche (e, pertanto, può reagire in modo molto diverso da altri).

Tutto ciò è sufficiente ad evidenziare come la valutazione della proporzionalità, a cose fatte, possa in concreto riuscire molto complessa e impegnativa.

In molti casi, una perizia psicologica aiuterà a ricostruire il percorso mentale della vittima ed a spiegare le sue conseguenti reazioni.

La legge del 2006 ha ridotto questo ambito di incertezza stabilendo che la difesa è sempre proporzionale quando, per difendere la propria o altrui incolumità, ovvero i beni propri o altrui, si usa un'arma (legittimamente detenuta) contro un soggetto che ha violato il proprio domicilio (o attività).

Unica condizione, specifica la norma in questione, che non vi sia desistenza da parte dell'aggressore. Purtroppo anche questo termine però genera ulteriori incertezze interpretative.

Da rilevare, in ogni caso, che queste nuove disposizioni se non eliminano, ridimensionano molto il criterio della "proporzionalità", e aboliscono praticamente la tradizionale discriminazione fra danni materiali subiti e lesioni personali inferte.

Il concetto di desistenza

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Vediamo di approfondire il concetto di desistenza.

Desistere, significa "rinunciare a continuare una azione già iniziata" (Treccani). Quindi, se l'aggressore abbandona l'azione, in base alle nuove norme, la difesa non è più legittima e si tramuta, a sua volta, in aggressione.

La desistenza (sia essa volontaria o meno) è però anch'essa difficile da valutare esattamente, sopratutto per l'incidenza, in quel momento, di forti componenti emotive che complicano il contesto.

Supponiamo che il ladro, afferrato l'oggetto desiderato, cerchi di allontanarsi. In questo caso non vi sarebbe desistenza: l'aggressione è ancora in corso e il ladro sta cercando di portarla a compimento, appropriandosi del bene.

La vittima può ancora legittimamente "difendere il suo diritto", sempre comunque tenendo conto della discriminante della proporzionalità, (che non è mai da considerarsi in ragione del valore (affettivo o di mercato) del bene sottratto).

Qui però entra in gioco, in misura determinante, il turbamento emotivo. Se nel caso in esame, il ladro ha malmenato la vittima ed è ancora sulla scena del crimine, o n elle immediate vicinanze, la reazione di quest'ultima appare giustificata, anche se il ladro sta concretamente allontanandosi.

Occorre, infatti, uscire dalla semplice rappresentazione della meccanicità dei gesti del circuito azione-reazione e allargare la lettura per ricomprendervi la dimensione complessa degli stati psico-emotivi dei soggetti umani coinvolti. La "dimensione" di un assalto alla persona, non è un accadimento solo oggettivo, come la caduta di un muro, è un fatto relazionale, con un coinvolgimento emozionale che può essere molto intenso ed influire sul comportamento in misura determinante.

La violazione di domicilio

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La Cassazione ha ritenuto che non può ritenersi legittimo sparare a un ladro entrato in una proprietà privata se non sta mettendo in pericolo le persone e se non tiene un comportamento aggressivo.

Questo orientamento, teoricamente condivisibile, suscita in pratica qualche perplessità.

Innanzitutto, un intruso non ha scritto in fronte che è semplicemente un ladro. La violazione di domicilio è di per sé atto fortemente aggressivo e denso di sviluppi inquietanti: è assiomatico che non ci si introduce furtivamente in casa altrui per portare doni, ma per fare danni.

Del tutto giustificato, dunque, l'allarme che suscita e che, a seconda della personalità, delle esperienze, della maturità della vittima, può in questa provocare reazioni molto violente e del tutto comprensibili.

Ci si chiede fino a dove queste reazioni siano legittime, ma è impossibile in queste situazioni prefigurare dei modelli oggettivi. Ogni persona reagisce in modo diverso, a seconda della sua personalità e della sua stabilità neuro-psichica (della quale non è responsabile).

Un soggetto con una personalità fragile, impressionabile e impaurita, si comporterà in modo molto diverso da altri, più sicuri o meno suggestionabili.

Qualsiasi classificazione preventiva, secondo schemi precostituiti, della reazione all'evento in esame non è corretta. L'uomo non è un robot.

E' comunque da considerare, massimamente sotto questo profilo, che colui che viola le regole, si assume automaticamente le conseguenze, dirette e indirette, del suo gesto.

Il malvivente che penetra nel giardino o nella casa altrui e viene assalito da un mastino che lo ferisce anche gravemente, non potrà mai chiedere danni (come invece è capitato) al padrone di casa.

Sarebbe come se, nel rompere il vetro di una finestra il malfattore si procurasse una emorragia, per la quale chiedesse poi al proprietario dell'abitazione di essere risarcito.

Emblematico il caso Capozzo, che ha recentemente trovato molto spazio nei media. Qui, troviamo un intruso che entra nel giardino di casa Capozzo, si arrampica sul balcone della stanza dei bimbi e cerca di forzarne la porta-finestra.

Il rumore mette in allarme il Capozzo che, a sua volta, cercando un'arma, provoca un baccano che mette in fuga il ladro il quale si ritira ma non fugge e si acquatta nel giardino. Il Capozzo lo vede e lo fulmina a revolverate. Il Giudice lo condannerà per omicidio volontario.

Decisione non condivisibile, in ragione delle considerazioni di cui sopra.

La Cassazione sulla legittima difesa

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La Cassazione si è tuttavia recentemente avvicinata a questi concetti decretando la non punibilità di colui che ha sparato all'intruso quando è mosso "da stato di grave turbamento" , sempreché tuttavia sia motivato dalla "salvaguardia della incolumità propria o altrui" (non dei beni).

Quest'ultima precisazione peraltro lascia perplessi. Infatti ogni soggetto percepisce la situazione in modo suo proprio e può valutarla come pericolosa anche quando tale potrebbe oggettivamente non essere, e così reagire di conseguenza.

Nel caso sopra citato del Capozzo, ad esempio, un indicatore significativo dello stato di alterazione del soggetto è costituito dalla circostanza che egli scarica l'intero caricatore della pistola contro il ladro rimpiattato nel giardino. Ciò significa infatti che egli, mentalmente, deve annientare il pericolo enorme rappresentato dall'intruso. (Sicuramente positivo, a questo punto, che non disponesse di un mitra e di bombe a mano).

Approfondimento concreto del principio della desistenza

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Questa fattispecie costituisce anche un'occasione di ulteriore approfondimento concreto del principio della "desistenza".

Qualcuno potrebbe infatti sostenere che il ladro (tale peraltro solo in ipotesi astratta), nascondendosi nel giardino stesse "desistendo". Come abbiamo sottolineato la "desistenza" non deve essere obbiettiva ma solo soggettiva, cioè tale nella raffigurazione mentale dell'agente.

Nella percezione del Capozzo, preda di un evidente tumulto emotivo, il pericolo è sempre immanente, in quanto impersonato dal ladro, e potrà scomparire solo con la eliminazione (la scomparsa) di quest'ultimo.

La vicenda

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Per analogia, prendiamo ora in esame l'episodio del gioielliere aggredito da tre giovinastri muniti di pistola (rivelatasi poi un giocattolo). Costoro aggrediscono e malmenano lui e la moglie, finché egli riesce ad impossessarsi della sua pistola (vera). Alla vista dell'arma, i malviventi girano i tacchi, ma lui spara. Ne stende un paio e ferisce il terzo.

Il Giudice lo condanna perché gli aggressori stavano "desistendo".

Peraltro, come abbiamo ribadito, queste situazioni non possono essere valutate sotto il semplice profilo della dinamica meccanica dei gesti: è essenziale effettuare una disamina che tenga conto dello stato di coinvolgimento emotivo dei soggetti coinvolti (come ora anche la Cassazione comincia a recepire).

Il gioielliere spara in quanto psicologicamente alterato dalle botte elargite a lui ed alla moglie ed emotivamente trascinato dal desiderio di difendere entrambi. La sua è una reazione che rientra nel momento passionale dello scontro e che emotivamente è ancora in atto anche quando i malviventi si voltano per scappare. Non sono a cinquanta metri: sono là, sul teatro dello scontro e nella dinamica di questo.

Da considerare anche che, in questi casi, emerge una reazione primordiale.

Quando l'uomo primitivo, assalito da una bestia feroce, riusciva in qualche modo a farla "desistere", tentava comunque di colpirla, sia perché questa poteva rigirarsi in qualunque momento, sia perché costituiva un pericolo futuro, sia perché lo scontro non poteva risolversi in modo neutro, senza che l'aggressione, in quanto tale, non venisse sanzionata. La belva doveva imparare a rispettare l'animale uomo.

E qui, sia pure con un poco di colore, tocchiamo un aspetto inspiegabilmente trascurato, ma di fondamentale importanza per inquadrare correttamente il concetto di "difesa".

Abbiamo sopra sottolineato che la difesa assume il più delle volte le caratteristiche di una reazione, cioè di una azione che si contrappone ad altra dalla quale è direttamente provocata, determinata e motivata.

L'aggressione, sopratutto quando l'aggressore malmena la vittima, prescindendo dalle eventuali lesioni corporali, produce sempre a quest'ultima una ferita morale alla personalità. L'insieme profondo delle realtà affettive proprie di ognuno e radicate nel suo substrato psicologico viene colpito e mortificato, suscitando un tumulto emotivo che provoca una ribellione interiore ed una reazione concreta.

Questo aspetto, della rilevanza del danno morale sofferto, quale esimente o attenuante della reazione violenta alla aggressione, è principio presente nel nostro ordinamento ed emerge, in specie, all'art. 62 cp, 2° c.: "attenua il reato l'aver agito in stato d'ira, determinata da fatto ingiusto altrui".

Egualmente, ne era manifestazione anche l'art. 587 cp (Delitto d'onore) che, se pur abrogato nel 1981 nella convinzione che l'applicazione delle corna non ledesse più l'onore, esprimeva tuttavia il collegamento (quasi) esimente tra l'offesa e la conseguente reazione.

Un collegamento dal quale non si può prescindere se si vuole valutare correttamente la legittima difesa.

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