Analisi della giurisprudenza della Corte Costituzionale in tema di riserva di legge in materia penale

di Sara Fabiani - "Le sole leggi possono decretar le pene su i delitti, e quest'autorità non può risedere che presso il legislatore che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale" (Cesare Beccaria, Dei Delitti e Delle Pene). Nel chiarire il fondamento del principio di riserva di legge, stabilito dall'art. 25, comma 2, Cost., la Corte Costituzionale ne ha statuito, più volte, il profilo politico di matrice illuministica, che sta a significare la ratio del monopolio penale del legislatore statale "sul suo essere rappresentativo della società tutta - unita per contratto sociale - perché - è la società tutta che attende che l'esercizio del potere legislativo penale, direttamente o attraverso i suoi rappresentanti, non avvenga arbitrariamente bensì - per il suo bene e nel suo interesse" (così la sentenza n. 487 del 1989; V. Manes, Principi costituzionali in materia penale).

Il principio della riserva di legge in materia penale

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La riserva di legge dello Stato, in materia penale, riveste il ruolo di garante della sovranità del Parlamento e della dialettica democratica, ma anche di limitazione delle fonti di produzione giuridica e ciò nell'ottica non soltanto di implicare l'esclusione di possibili arbitrii, da parte di altri poteri dello Stato (c.d.profilo negativo della riserva di legge), ma, altresì, con la finalità di una riduzione della sfera del penalmente rilevante che si confà all'idea del diritto penale quale extrema ratio di tutela dei beni giuridici (c.d."aspetto positivo del principio di riserva di legge"); (V. Manes, op.cit.).

Nelle sentenze 282 el 1990, 333 del 1991 e 295 del 2002, la giurisprudenza della Corte Costituzionale è costante, con riguardo alla delimitazione tra legge penale e fonti subordinate, nel "ritenere che il principio di legalità in materia penale (sia) soddisfatto, sotto il profilo della riserva di legge in materia penale (art. 25 della costituzione), allorquando la legge determini, con sufficiente specificazione, il fatto cui è riferita la sanzione penale. In corrispondenza della ratio garantista della riserva, è infatti necessario che la legge consenta di distinguere tra la sfera del lecito e quella dell'illecito, fornendo a tal fine una indicazione normativa sufficiente ad orientare la condotta dei consociati" (cfr. sentenza di questa Corte , n. 364 del 1988).

Si aggiunge, con la sentenza 282 del 1990 che "non contrasta con il principio della riserva di legge la funzione integrativa svolta da un provvedimento amministrativo, rispetto ad elementi normativi del fatto, sottratti alla possibilità di un'anticipata indicazione particolareggiata da parte della legge, quando il contenuto d'illecito sia peraltro da essa definito", giacché in tali ipotesi "l'alternativa sarebbe quella di rimettere al giudice l'interpretazione dell'elemento normativo; ma ciò determinerebbe un significativo scadimento di certezza conseguente alle inevitabili oscillazioni applicative" (sentenza cit.; S. Petitti, Riserva di legge e norme penali in bianco).

La giurisprudenza della Consulta sulle norme penali in bianco

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Con l'espressione "norme penali in bianco" ci si riferisce alla tecnica normativa per cui il contenuto del precetto è delineato da una norma diversa da quella che stabilisce la pena, ossia la norma primaria, invece di individuare essa stessa il precetto, rinvia ad altra fonte dell'ordinamento giuridico. (S. Petitti, op.cit.)

Nella sentenza 26 del 1966, la Corte Costituzionale stabiliva che "non importa prendere posizione sul controverso problema se, allorquando una sanzione penale venga collegata da una legge alla trasgressione di una norma emanata da una autorità amministrativa (o comunque contenuta in un atto non proveniente dal Potere Legislativo dello Stato), e non destinata semplicemente a specificare il contenuto di singoli definiti elementi della fattispecie penale, il precetto sanzionato penalmente sia da identificare in questa norma o in quella legge".

Nella sentenza 186 del 1982, la Corte statuiva, infatti, che "quand'anche il precitato comma (l'art 2 comma 3, legge del 1975, legislazione in materia di armi) venisse considerato una norma in bianco, non per questo dovrebbe considerarsi violativo dell'articolo 25 della Costituzione, adempiute le condizioni innanzi indicate. In dottrina si ritiene quasi unanimemente che la norma penale in bianco non violi di per sé il principio di riserva di legge".

Da queste ed altre sentenze si desume che la Corte non abbia mai realmente affrontato il problema dogmatico delle norme penali in bianco (S.Petitti, op.cit.). Infatti, già nella sentenza n. 58 del 1975, la Corte, con richiamo alla propria giurisprudenza, aveva censurato l'art. 1164 del codice della navigazione. Esso prevedeva una sanzione penale non solo per inosservanza di leggi, ma anche di regolamenti e provvedimenti amministrativi; secondo la Corte "il principio di legalità è violato solo quando non sia una legge (o un atto equiparato dello Stato), non importa se proprio la medesima legge che impone la sanzione od un'altra legge, ad indicare con sufficiente specificazione, i presupposti, i caratteri, il contenuto ed i limiti dei provvedimenti dell'autorità non legislativa, alla trasgressione dei quali deve seguire la pena". Ma è con la sentenza 282 del 1990 che la Corte Costituzionale ha chiarito che " la disamina dei rapporti tra legge penale e regolamento (o tra legge penale ed atto amministrativo) si è svolta, almeno principalmente, supponendo ancora non emanato il regolamento (o l'atto amministrativo): sicché, ponendosi dal punto di vista della formazione della legge penale, ci si è domandato quali fossero gli elementi essenziali per la "sufficiente determinazione" del fatto tipico da parte della legge penale e quali elementi potessero, senza violare il principio della riserva di legge, dal legislatore essere invece rimessi al regolamento od all'atto amministrativo, da emenare successivamente all'entrata in vigore della legge penale, per il completamento, spesso tecnico, di quest'ultima". Ha osservato la Corte che "l'intero dibattito sull'assolutezza o relatività della riserva di legge ex art 25, comma 2, Cost., si è svolto nel quadro dei rapporti tra legge penale e regolamento od atto amministrativo, da emettere successivamente all'emanazione della legge penale". Questa sentenza ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, primo comma, e 5, primo comma, della legge 7 dicembre 1984 n. 818, in tema di certificato di prevenzione incendi, in quanto implicavano un rinvio in toto al regolamento o all'atto amministrativo subordinato, da parte della legge penale, statuendo che " il totale rinvio al regolamento od all'atto amministrativo subordinato, da parte della legge penale (finanche per l'identificazione dei soggetti obbligati) nella persistenza del potere dell'amministrazione di modificare l'atto stesso, equivale al rinvio da parte della legge al potere subordinato ed è, pertanto, chiaramente violativo della riserva di legge ex art 25, secondo comma, Cost.

Tale tecnica di normazione induce, tra l'altro, ad incertezze sul contenuto essenziale dell'illecito penale: sicché, anche in assenza di modifiche, da parte dell'amministrazione, dell'atto formalmente recepito dalla legge penale, tali incertezze non possono ritenersi escluse". In tale ultima sentenza, la Corte Costituzionale ha definitivamente chiarito la divisione delle competenze tra potere legislativo e potere esecutivo, in maniera che non venga violata la riserva di legge in materia penale ex art 25, secondo comma, della Costituzione, stabilendo che può essere, sì, legittimata l'esistenza di norme penali in bianco, ma il rinvio totale al regolamento od atto amministrativo senza, invece, la sufficiente determinazione del fatto tipico, costituisce violazione della riserva medesima (S. Petitti, op.cit.).

Rinvio della legge penale agli elenchi PA in tema di stupefacenti

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Nella sentenza 36 del 1964, la Corte Costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 6, 18, 25 della legge 1041 del 1954. In particolare, il citato art. 6 prevedeva, come reato, il fatto di colui che, senza autorizzazione, acquisti, venda, ceda, esporti, importi, passi in transito, procuri ad altri, impieghi o comunque detenga sostanze o preparati nell'elenco degli stupefacenti, e quello di commercio illecito degli stupefacenti commesso da chi sia in possesso di autorizzazione (art.6).

In tale sentenza, la Corte ha stabilito che, in tal caso, non si era di fronte "ad un precetto penale, la cui fonte sarebbe, come si assume, parte nella legge e parte nell'atto amministrativo (elenco degli stupefacenti). Il precetto penale, ai fini della riserva di legge, riceve intera la sua enunciazione con la generale imposizione del divieto. Le singole voci degli elenchi a cui essa fa rinvio, costituiscono indicazioni particolareggiate che, per le variabili forme della sostanza e per le continue e rinnovate indagini cui essa è soggetta, si sottraggono alla possibilità di una anticipata specificazione da parte della legge. Indubbiamente, questo concorso di norme di legge e statuizioni amministrative, di cui continuamente si manifesta la necessità nella disciplina giuridica, deve verificarsi con la piena osservanza delle norme costituzionali ed, in paricolare, quando ricorrano precetti penali, della riserva di legge di cui all'art. 25 della Costituzione." La Corte in questa occasione non ha ritenuto violata la riserva di legge in materia penale, poiché, con la formulazione dell'art. 6 legge sopra citata " non soltanto è stata dalla legge indicata la condotta vietata (vendita senza autorizzazione, acquisto, cessione, detenzione ecc.), ma anche l'oggetto materiale del delitto, il quale deve ritenersi idoneamente designato, al fine di una sufficiente posizione della fattispecie penale, con la espressione "sostanze o preparati indicati nell'elenco degli stupefacenti". La Corte ha osservato ancora che "non era mai stato posto in dubbio che nelle figure di reato prevedute dagli artt. 446-447 cod. pen., la enunciazione del precetto da parte della legge fosse completa pur essendo l'oggetto materiale indicato, puramente e semplicemente con la locuzione "sostanze supefacenti". Infatti, in tali ipotesi viene aggiunto un ulteriore elemento di certezza: "la preventiva indicazione degli elenchi fornisce la garanzia di una qualificazione unitaria, valevole, in base agli accordi internazionali, per tutti gli Stati contraenti e in tutti i casi di uso illecito che la realtà presenta all'esame del magistrato" (sent. cit.). Ciò viene confermato anche nella sentenza n. 9 del 1972.

Interessante si prospetta, altresì, la sentenza n. 333 del 1991 che fa riferimento alla disciplina delle sostanze stupefacenti, adottata con D.P.R. 309 del 1990, in cui si è demandata ad un decreto del Ministro della Sanità, la determinazione dei limiti quantitativi massimi di principio attivo per le dosi medie giornaliere e, pertanto, è stata sollevata questione di legittimità costituzionale, per violazione della riserva di legge in materia penale. La Corte ha chiarito che " la discrezionalità del legislatore primario è stata esercitata nel momento in cui, tra le varie soluzioni possibili, ha optato per il criterio della dose media giornaliera come scriminante tra detenzione sanzionata penalmente e non. Così definita la soglia di punibilità, la fattispecie penale è sufficientemente descritta nei suoi elementi essenziali e, al di là di questa opzione, residua soltanto una determinazione tecnica sulla base di nozioni di tossicologia, farmacologia e statistica sanitaria, ma non anche una scelta di politica criminale. Sono quindi queste conoscenze tecniche che fissano in termini sufficientemente delimitati le coordinate dell'integrazione rimessa al Ministro della Sanità, il quale pertanto è tenuto ad esercitare una discrezionalità solo tecnica".

Alcune considerazioni

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In considerazione del parametro della c.d. sufficiente specificazione, il rinvio al regolamento od atto amministrativo richiamato, è stata, dunque, considerata compatibile con il principio delle riserva di legge in materia penale (V. Manes, Principi Costituzionali in Materia Penale). Si è considerata non in contrasto con il principio della riserva di legge, la funzione di integrazione svolta da un regolamento od un provvedimento amministrativo, con riguardo ad elementi del fatto che, per loro natura, si sottraggono alla possibilità di una anticipata specificazione da parte della legge e che, per questo motivo, sono demandati alla determinazione tecnica del regolamento od atto amministrativo; non si ha violazione del principio della riserva di legge in materia penale, però, soltanto quando il contenuto dell'illecito penale e la scelta di politica criminale vengano, comunque, stabiliti dalla fonte primaria, come nel caso degli elenchi di sostanze stupefacenti, contenute in un decreto ministeriale, in correlazione ad un divieto, i cui termini normativi essenziali risultano definiti dalla legge (V. Manes, op.cit.). Allo stesso modo, si è ritenuto compatibile con il principio della riserva di legge penale, l'ipotesi in cui il precetto penale sia caratterizzato da una funzione sanzionatoria, rispetto a provvedimenti emanati dall'autorità amministrativa, solo quando, però, sia la legge ad indicarne presupposti, caratteri, contenuto e limiti, di tal che che il precetto penale riceva intera la sua enunciazione con l'imposizione del divieto. Va messo in evidenza che il legislatore ha, dunque, l'onere di determinare il tipo di provvedimenti ai quali si riferisce la tutela, consentendone, quindi, l'individuazione e stabilendone i presupposti (V. Manes, op.cit.).

La Corte Costituzionale, dal canto suo, evita di prendere posizione sulla questione dogmatica delle norme penali in bianco e ritiene che questa tipologia non contrasti con il principio della riserva di legge penale, quando sia comunque la legge, e non la fonte subordinata richiamata, a specificare il contenuto del divieto in tutte le sue componenti essenziali, cioè nei relativi presupposti, caratteri e limiti. La irrilevanza della validità della definizione come "norme penali in bianco" emerge chiaramente nella sentenza n. 186 del 1982, nella quale, con riferimento alla legislazione in materia di armi (art. 2, comma 3, l. n. 110 del 1975), viene stabilito che "tuttavia, quand'anche il precisato comma venisse considerato norma penale in bianco, non per questo dovrebbe ritenersi violativo dell'art. 25 Cost., adempiute le condizioni innanzi indicate" (V. Manes, op.cit.). E' da sottolineare come l'istanza garantista che viene espressa dalla riserva di legge in materia penale, venga messa in rilievo con la necessità che sia non un atto del potere esecutivo, bensì la legge a consentire di "distinguere tra la sfera del lecito e quella dell'illecito, fornendo a tal fine un'indicazione normativa, sufficiente ad orientare le condotta dei consociati" (sent. n. 364 del 1988 e 282 del 1990, Corte Cost.), pur non richiedendosi che la fonte legislativa debba provvedere ad un'integrale descrizione del fatto tipico (V. Manes, op.cit.).

Dott.ssa Sara Fabiani

martasara.fabiani@gmail.com


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