Purtroppo di recente è frequente trovarsi di fronte a sentenze prive di motivazione. Ecco quando una motivazione può dirsi assente, con un esempio pratico

di Luigi Salvati e Giulia Rizzo - Nel corso degli ultimi mesi sono state portate alla luce sentenze che hanno destato un forte clamore mediatico a causa della violazione, da parte del giudice, dell'obbligo motivazionale, in violazione dei doveri costituzionali.

Il contenuto della sentenza

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La sentenza, atto giurisdizionale per eccellenza, deve del resto contenere, oltre al dispositivo, ossia la parte nella quale è contenuta la decisione del giudice, anche la motivazione, nella quale il giudice espone la ricostruzione dei fatti ed il ragionamento logico-giuridico che giustifica il segno della decisione adottata.
L'obbligo di motivazione è previsto all'art. 111 Cost. co. 6, come garanzia dei cittadini nei confronti del potere giudiziario e di buona amministrazione della Giustizia, nonché nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali[1].
La motivazione costituisce una delle parti essenziali della sentenza, a garanzia del principio del giusto processo il quale esige che la causa sia esaminata e decisa correttamente, ragionevolmente e secondo diritto[2], nonché a garanzia del diritto all'azione e del diritto alla difesa.

Quando la motivazione è assente

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Come è stato più volte ribadito in giurisprudenza, la motivazione è assente quando l'enunciazione della decisione è priva di argomentazione, oppure quando la motivazione formalmente esiste ma le sue argomentazioni sono svolte in modo da non riconoscerla come giustificazione della decisione[3].
La motivazione deve comprendere la succinta esposizione dei fatti di causa; laddove manchi, la stessa risulta essere meramente apparente in quanto non consentirebbe di comprendere l'iter logico seguito dal giudice per pervenire al risultato enunciato.

La sentenza

, inoltre, è motivata anche quando richiami in maniera sistematica le ragioni contenute in altro atto o provvedimento esterno, ovvero quando faccia riferimento a precedenti giurisprudenziali conformi - c.d. motivazione per relationem[4] - ma, ai fini della sua validità, occorre che l'atto richiamato venga indicato in maniera precisa, in modo che sia agevolmente rintracciabile e conoscibile. In pratica, i giudici non possono limitarsi alla condivisione di una determinata interpretazione, ma devono anche spiegare le norme, i motivi e le ragioni.
La sentenza, quindi, è nulla laddove si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento e non sia, pertanto, possibile individuare le ragioni poste a fondamento del dispositivo[5].
A tal proposito un noto giudice di Milano, dott.ssa Maccora, ha così dichiarato: «Le sentenze sono lo specchio del nostro lavoro. Per questo devono essere scritte in maniera inappuntabile. Non dimentichiamo che chiarezza, pertinenza e comprensibilità sono indici della qualità della democrazia di un ordinamento»[6].

Un esempio di motivazione assente

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Dopo aver analizzato i criteri ai quali deve uniformarsi un giudice nel motivare correttamente le sentenze, facciamo l'esempio di una sentenza nella quale è ravvisabile una totale assenza di motivazione.

Si pensi al caso di un procedimento che abbia come oggetto un'ipotesi di sinistro mortale e in cui il giudice, a fronte della domanda proposta dai superstiti della vittima, si limiti a rigettarla con una sintetica sentenza di poche pagine, omettendo di analizzare le molteplici norme interessate e limitandosi alla sola condivisione di una interpretazione personale priva di sostegno sia normativo che giurisprudenziale, non consentendo di ricostruire in alcun modo l'iter logico-argomentativo seguito dal giudice.

Con una sentenza di tal genere, il giudice si limita a una parziale ricostruzione descrittiva della dinamica del sinistro non comprovata da un effettivo e tangibile riscontro giurisprudenziale come se la Suprema Corte di Cassazione e la Corte di Appello non si fossero mai pronunciate in casi analoghi creando dei precedenti e ignorando, quindi, la presenza di una ormai consolidata giurisprudenza, in caso di sinistri stradali, della responsabilità esclusiva in capo al conducente o al pedone, o dell'eventuale concorso di responsabilità di entrambi.

E' evidente che una simile pronuncia viola i precetti costituzionali e le regole che determinano la struttura delle sentenze.


di Luigi Salvati, Avv. del Foro di Roma e di Giulia Rizzo, dott.ssa praticante del Foro di Roma


[1] L'art. 6 CEDU così sancisce "ogni persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e delle sue obbligazioni di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente […].'
[2] Corte Costituzionale sentenza n. 349/2007.
[3] Cass. Civ., SS.UU. sent. n. 8053/2014. Cfr. anche Cass. civ., Sez. III, sent. n. 20112/2009.
[4] L'art. 118 disp. att. c.p.c. così sancisce "La motivazione della sentenza di cui all'art. 132, co.2 n.4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi. Debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio ed indicanti le norme di legge e i principi di diritto applicati […]."
[5] Cass. Civ., Sez. VI TRI, ord. n. 4294/2018.
[6] V. La GIP del caso Yara: "Più attenzione alle parole usate nelle sentenze" su Corriere della sera, 14 marzo 2019 di Fiorenza Sarzanini


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