Analisi critica dei principi di diritto enucleati dalla Suprema Corte in una recente sentenza che fa e farà discutere: la delega in mediazione e l'assolvimento della condizione di procedibilità

Avv. Alessandra Donatello - Lo scorso 27 marzo la Suprema Corte (sentenza n. 8473/2019 sotto allegata) si è espressa affrontando due tematiche di diritto particolarmente pregnanti nell'ambito della mediazione civile e commerciale: la delega della parte che non presenzia personalmente e l'assolvimento della condizione di procedibilità.

Si tratta di una sentenza che ha già scosso gli animi, forse e soprattutto perché, trattandosi della prima pronuncia in materia, ci si aspettava una presa in considerazione più ampia e una sincronia maggiore rispetto alle fondamenta dell'istituto, di più ampio respiro anche transfrontaliero.

In fondo, l'essere parte di una comunità europea che ci viene ricordato praticamente ogni giorno ed in ogni campo, dovrebbe sempre indurci, anche in quello del diritto, a ragionare tenendo conto che siamo in Europa.

Proviamo ad analizzare i due principi di diritto che emergono dalla sentenza della Suprema Corte, partendo dal primo che viene indicato, la delega della parte:

La delega della parte

I giudici di legittimità affermano in prima istanza che "la previsione della presenza sia delle parti sia degli avvocati comporta che, ai fini della realizzazione della condizione di procedibilità, la parte non possa evitare di presentarsi davanti al mediatore, inviando soltanto il proprio avvocato".

Subito dopo, però, si afferma che "tuttavia, la necessità della comparazione personale non comporta che si tratti di attività non delegabile. Proseguono i giudici: in mancanza di una previsione espressa in tal senso, e non avendo natura di atto strettamente personale, deve ritenersi che si tratti di attività delegabile ad altri".

Questo primo passaggio, cruciale, impone un'altrettanta delicata considerazione partendo proprio dalle ultime righe della sentenza, sopra riportate:"non avendo natura strettamente personale".

Francamente, leggendo questo principio, a parere della scrivente, è sembrato veder crollare uno dei pilastri che rappresentano basilare sostegno della mediazione: si fa fatica, infatti, ad immaginare qualcosa di più strettamente personale del percorso di mediazione, qualunque essa sia, civile e commerciale, famigliare, scolastica, penale.

Il primo cardine che si sperimenta, per non dimenticarlo più, è in realtà proprio questo: nessuno può conoscere gli interessi delle parti meglio delle parti stesse, come si può allora accompagnarle in un percorso di dialogo, scavare nelle loro ansie ed accompagnarle per mano fuori dalle stesse se mancano proprio i protagonisti principali, ovvero le parti?

Laddove si legge, proseguendo nella sentenza, che la parte "per sua scelta" decida di non partecipare alla mediazione - avallando, così par di capire, tale comportamento - semplicemente consentendo la delega - purché sostanziale - anche al proprio avvocato, apre una strada, ad avviso di chi scrive, molto impervia e pericolosa, almeno su due fronti.

Da un lato, giustificando tale possibilità di scelta di non partecipare si va a svuotare di contenuto la procedura stessa di mediazione, per quanto poc'anzi detto; dall'altro, si porranno non pochi problemi formali relativamente alla procura da fornire, con tutte le conseguenze che ne potranno derivare.

La condizione di procedibilità

Anche esaminando il secondo principio di diritto, relativo all'assolvimento della condizione di procedibilità, sembra volercisi allontanare dalla sostanza della mediazione.

Se si afferma, come scrivono i giudici di legittimità, che è sufficiente presentarsi al primo incontro e manifestare sic et simpliciter la propria volontà di non proseguire, senza addurre alcun sostanziale impedimento allo svolgimento della procedura, continueremo ad avere mancate partecipazioni e mancate prosecuzioni ed il mediatore non farà altro che svolgere una mera funzione formale, che non ha nulla a che fare con i principi dell'istituto e con le sue finalità.

Se nemmeno troppo tra le righe, insomma, si legge di un legislatore che ha cercato di forzare la creazione di una cultura di risoluzione alternativa delle controversie, sottolinenando a più riprese tale costrizione, evidentemente connotandola di un'accezione negativa, vale la pena trarre alcune considerazioni.

Senz'altro costituisce un ossimoro parlare di una cultura forzata della mediazione; la cultura, in qualunque ambito, non può essere una forzatura ma nel senso che non può nascere dal niente, deve essere studiata in modo progressivo, deve avere il tempo di essere coltivata, di essere conosciuta, di essere incentivata.

La sensazione che si ha, a fronte di questa prima pronuncia della Suprema Corte, è che ci sia ancora molto lavoro da svolgere, che ci sia assoluto bisogno di un intervento legislativo serio, articolato ma soprattutto studiato da chi opera in questo settore.

Avv. Alessandra Donatello

avvocato e mediatore civile e commerciale

Scarica pdf sentenza Cassazione n. 8473/2019

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