Riproposto con ampio consenso il modello Ferranti per il mantenimento del coniuge divorziato con alcune modifiche che ne accentuano i rischi
di Marino Maglietta - Venne già commentata su questo quotidiano la pdl 4605 (leggi Assegno divorzio: dire addio al tenore di vita per condividere anche il risparmio) che si proponeva di individuare una equa via di mezzo che dopo il divorzio evitasse rendite di posizione per il coniuge beneficiario di assegno e al tempo stesso un suo drammatico e insanabile impoverimento, a dispetto dei sacrifici di una vita. Caduto il progetto per la chiusura della legislatura, quella iniziativa viene ora riproposta (pdl 506, unica firmataria e relatrice l'on. Alessia Morani) con taluni ritocchi, che tuttavia non ne alterano la sostanza e soprattutto non ne risolvono gli aspetti negativi, già a suo tempo riscontrati, ma più probabilmente appaiono destinati ad accentuarli.

Leggi Assegno di divorzio: in arrivo la riforma

Già nella presentazione si riscontrano le stesse forzature nell'interpretazione delle legislazioni straniere, invocate per inserire il provvedimento in una generale "normalità" che viceversa sembra proprio non esistere, visto che in generale il divorzio è pensato come tombale rispetto al matrimonio. Vero che qua e là la sentenza conclusiva è accompagnata da un aiuto per il coniuge debole, in nome di condivisibili principi solidaristici; un aiuto, tuttavia, pensato come una sorta di "indennità di fine rapporto", versato il quale si è definitivamente liberi.

Viceversa, la pdl in oggetto, sforzandosi di trovare analogie, presenta i pochi casi in cui qualcosa del genere esiste come il dominante "orientamento degli ordinamenti europei", e per giunta ritaglia le norme dal contesto, dando loro l'interpretazione che più conviene. Senza ripetere tutte le considerazioni già svolte sul punto nel citato intervento precedente, è il caso della normativa francese, che largamente ispira nell'articolato la pdl.

Di essa non si dice che al momento del divorzio prevede e dettaglia in ben sei articoli (270 e segg. c.c.) la liquidazione una tantum limitandosi ad aggiungere a una prassi evidentemente prevalente solo una teorica possibilità (art. 276 c.c.): "A titre exceptionnel, le juge peut, par décision spécialement motivée... , lorsque l'âge ou l'état de santé du créancier ne lui permet pas de subvenir à ses besoins, fixer la prestation compensatoire sous forme de rente viagère" dove è chiaramente evidenziato che si tratta di casi che escono del tutto dall'ordinario. Per giunta, la pdl si limita a citare l'erogazione a forfait nell'introduzione, ma nell'articolato neppure la ipotezza, dichiarando in tal modo la propria volontà di favorire la corresponsione di vitalizi.

E che per "coniuge debole" debba intendersi la moglie - non per motivi statistici, che sarebbero accettabili, ma ideologici - risulta abbastanza chiaro dall'avere spazzato via dalla formulazione francese i due più significativi e ragionevoli parametri, ovvero l'età e le condizioni di salute sia del beneficiario che dell'obbligato, forse nella documentata consapevolezza che i mariti in genere sono più grandi e più malandati delle mogli.

Non manca, in effetti nella pdl 506 qualche attenuazione rispetto alla precedente 4605, come avere optato per una facoltà del giudice di disporre l'assegno anziché un obbligo, allineandosi con quanto la pdl 4605 annunciava nell'introduzione, ma non prevedeva nelle prescrizioni, probabilmente per una frettolosa redazione. In cambio di ciò la pdl si segnala per varie modifiche decisamente pesanti sotto il profilo delle conseguenze per l'obbligato. Lo si comprende immediatamente dalla definizione dello scopo al quale è destinato l'assegno: "... a equilibrare, per quanto possibile, la disparità che lo scioglimento o la cessazione degli effetti del matrimonio crea nelle condizioni di vita rispettive dei coniugi".

Indubbiamente, una analisi intellettualmente onesta dei termini impiegati porta a concludere che si dovranno sommare le risorse di entrambi e dividere per due, con il che si va già ben oltre quanto basta per il mantenimento del precedente tenore di vita. Dove, però, per "risorse" non si considera più il solo reddito ma, altra novità della Morani, anche il patrimonio posseduto ("il patrimonio e il reddito di entrambi"), a prescindere dal modo in cui sia stato acquisito. Quindi anche ciò che il coniuge obbligato abbia guadagnato prima di contrarre matrimonio o in qualsiasi momento ereditato. Ovviamente si allude anche al patrimonio del beneficiario, ma siccome questi è per definizione "il coniuge debole" è scontato che anche le risorse patrimoniali siano di regola inferiori.

Tradotto in termini concreti, pur considerando l'altro insieme di circostanze alle quali il giudice potrà fare attenzione, è evidente che scompare qualsiasi interesse a rendersi autonomi e il matrimonio torna - tipicamente per la donna - all'ottocentesca valenza di "sistemazione". Senza nulla togliere o negare a una doverosa solidarietà verso chi abbia svolto per lunghi anni un lavoro domestico non retribuito e si trovi poi senza risorse proprie a una età che non permette l'ingresso nel mondo del lavoro, ragionando a monte c'è da chiedersi quanto convenga alla donna abbandonare la propria attività e trascorrere la vita familiare alle dipendenze economiche del compagno, ovvero se non sia il caso quanto meno di non incoraggiare il crearsi di queste situazioni. Già, perché nel 2016 l'età media al matrimonio è stata di 37 anni per gli uomini e 33 per le donne; dunque tipicamente ciascuno aveva già caratterizzato in modo autonomo la propria vita sociale: il fabbro e l'infermiera, l'imprenditrice e l'avvocato. Ma allora, è davvero politicamente utile e "progressista" introdurre norme che allontanano dal senso di responsabilità personale (in antitesi con lo sforzo compiuto da Cass. 11504/2017), assicurando un paracadute economico che nella fattispecie va addirittura oltre la garanzia di una vita adeguata ai propri meriti? Se davvero si sta andando alla ricerca di soluzioni eque che vogliano evitare i due eccessi su cui diffusamente insiste la proposta nell'introduzione, quanto meno non appare ragionevole, né equo, né socialmente opportuno pensare di superare il riferimento al "tenore di vita" goduto in costanza di matrimonio, procedendo in sostanza alla confisca dei beni dell'obbligato. Ad es., se una insegnante che ha lasciato il lavoro per dedicarsi alla famiglia può vivere più che dignitosamente con 3.000,00 € al mese (quello che guadagnerebbe nella migliore delle ipotesi se non avesse lasciato la scuola), perché separandosi con la pdl 506 (se diventasse legge) ne dovrebbe ottenere 5.000,00 solo perché nel frattempo l'ex marito ha ereditato dei beni di famiglia, dei quali lei non ha alcun merito? Non poteva bastare, quale finalità dell'assegno - contro il quale "di per sé" nulla qui si dice - quella di "assicurare, per quanto possibile, decorose condizioni di vita, valutate tenendo conto delle condizioni sociali proprie del beneficiario"?

Certo, tutto questo potrà anche non avvenire, visto che il giudice "può" e non "deve" disporre l'assegno divorzile, e con ampio margine di discrezionalità, che ruota su una quantità di circostanze. Ma sarà merito del magistrato, non certo della legge, che così com'è si presta alle più inique interpretazioni e applicazioni. Anzi, forse il rischio maggiore non è stato ancora qui evidenziato. Tra i parametri da considerare ai fini della erogazione dell'assegno la pdl 506 inserisce creativamente "il comportamento complessivamente tenuto da ciascuno in ordine al venir meno della comunione spirituale e materiale". Una vera dritta a vantaggio di chi voglia salvarsi dall'obbligo: speculare sulla causa del fallimento dell'unione, proprio in un momento in cui da più parti si suggerisce la cancellazione dell'addebito. Non è difficile immaginare quanto se ne avvantaggerà il contenzioso; nonché l'attività delle agenzie investigative.

Ce n'è abbastanza per suggerire che il progetto non vada avanti senza sostanziali emendamenti.


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