Presupposti e opportunità applicative. Gli strumenti di definizione delle controversie in materia di lavoro e la loro evoluzione nel tempo
Avv. Alessia Castellana - Quello lavorativo è uno dei contesti in cui è frequente che sorgano controversie. Con riferimento alle liti tra datore di lavoro e lavoratori, numerosi sono gli strumenti che il legislatore offre affinché le medesime possano essere gestite in modo efficace, accompagnando le parti ad una composizione della lite.
Soprattutto quelli offerti in sede stragiudiziale, hanno subito nel tempo ampie trasformazioni.
Un tempo per dirimere una controversia in materia di lavoro, le parti disponevano del solo tentativo ordinario di conciliazione e del Collegio arbitrale per i ricorsi avverso i provvedimenti disciplinari. Si trattava di procedure semplificate e di facile accesso.

La riforma del Collegato Lavoro

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Nel 1998, con il D.lgs. n. 80, fu introdotta l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione nelle c.d. "sedi protette", quale condizione di procedibilità per l'avvio del giudizio. In caso di esito negativo della procedura, le parti erano libere di adire l'autorità giudiziaria, avendo soddisfatto la predetta condizione.
Tuttavia, con la legge n. 183 del 2010 (c.d. Collegato Lavoro), vi è stata un'inversione di tendenza: da un canto è stata reintrodotta la facoltatività della procedura conciliativa stragiudiziale; dall'altro sono stati introdotti nuovi strumenti.
In molti non hanno raccolto con favore la riforma del Collegato Lavoro; ciò in quanto il venir meno del filtro della conciliazione obbligatoria quale condizione di procedibilità, ha inevitabilmente occupato la magistratura per liti che ben avrebbero potuto trovare una composizione in sede non contenziosa, con inevitabile dilatazione dei tempi medi di definizione dei giudizi.

Non solo: le nuove procedure di conciliazione sono risultate poco fruibili, spesso costose e non sempre adeguate ad una definizione rapida delle controversie.

Collegio di conciliazione e arbitrato ex art. 412-quater c.p.c.

Tra esse, a titolo esemplificativo, il Collegio di Conciliazione e Arbitrato disciplinato dall'art. 412 - quater c.p.c., o il ricorso al Collegio arbitrale previsto in seno alla Commissione di Conciliazione ex art. 412 c.p.c., secondo cui,"…ferma restando la facoltà di ciascuna delle parti di adire l'autorità giudiziaria e di avvalersi delle procedure di conciliazione e di arbitrato

previste dalla legge, le controversie di cui all'art. 409 possono essere altresì proposte innanzi al collegio di conciliazione e arbitrato irrituale costituito secondo quanto previsto dai commi seguenti…". Trattasi di procedura con cui le parti possono delegare, in qualunque fase del tentativo di conciliazione, i membri della Commissione di conciliazione istituita presso l'ex Direzione Territoriale del Lavoro, alla risoluzione della controversia tramite l'emissione di un lodo arbitrale.
L'art. 412 c.p.c. prevede inoltre che "… in qualunque fase del tentativo di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo, quando è possibile, il credito che spetta al lavoratore e possono accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla Commissione di Conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia…".

E' chiaro, dalla lettura delle norme, che si tratti di due forme di arbitrato: una trova attuazione nel corso del tentativo di conciliazione presso l'Ispettorato Territoriale del Lavoro (ex D.T.L.) ove la Commissione di conciliazione si costituisce quale Collegio arbitrale su richiesta delle parti; l'altra si svolge su iniziativa dei contendenti, innanzi ad un organismo composto da un rappresentante di ciascun soggetto coinvolto e da un presidente, con l'incarico di comporre la lite.

Sono procedure che si svolgono attraverso ricorsi, notifiche, memorie, difese, eccezioni, repliche, controrepliche e discussioni e si concludono con lodo arbitrale, per sua natura provvedimento terzo rispetto alle parti, soggetto frequentemente ad impugnativa.

Gli altri strumenti offerti dal legislatore

Tra quelle più utilizzate, vi è la conciliazione ordinaria disciplinata dall'art. 410 c.p.c., attivabile su base volontaria e che si svolge solo ove entrambe le parti vi aderiscono.

Oltre a quelle appena citate, ve ne sono altre tra cui il Collegio arbitrale su provvedimento disciplinare, previsto dall'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, cui si ricorre qualora il lavoratore voglia impugnare il provvedimento disciplinare ritenuto sproporzionato o non dovuto. La richiesta di costituzione del Collegio va fatta all'Ispettorato del Lavoro e si conclude con un lodo emesso dai tre arbitri.

Tra gli strumenti offerti dal legislatore, è inoltre previsto il tentativo obbligatorio di conciliazione su licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che si applica esclusivamente alle aziende che superano i 15 dipendenti(art. 18 S.L.) che intendano licenziare per giustificato motivo oggettivo lavoratori assunti a tutela c.d. reale (quindi non a tutele crescenti - Jobs Act - D. L.vo n. 23/2015). Il datore di lavoro, in questo caso, prima di procedere al licenziamento deve tentare la conciliazione presso la Commissione di conciliazione dell'Ispettorato del lavoro. La procedura è molto rapida e deve concludersi entro venti giorni. Nel caso in cui il tentativo non abbia esito positivo, o sia decorso inutilmente il termine di sette giorni per la convocazione delle parti, il datore di lavoro potrà procedere al licenziamento.Qualora invece le parti siano giunte ad una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, il dipendente potrà fruire dell'indennità di disoccupazione ed essere affidato ad un'agenzia di somministrazione, di intermediazione e/o supporto alla ricollocamento.

Non ultimo, nell'alveo delle procedure disponibili, risiede altresì lo strumento dell'offerta conciliativa per i contratti a tutele crescenti, con cui al fine di evitare l'alea del giudizio, il datore di lavoro può formulare al lavoratore un'offerta entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento e ciò nelle sedi previste dal IV comma dell'articolo 2113 c.c.: l'accettazione della proposta comporterà l'estinzione del rapporto e la rinuncia all'impugnazione.

Tratti caratterizzanti delle procedure di conciliazione in materia di lavoro

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In tutti i casi citati, è possibile cogliere alcuni fattori ricorrenti: le soluzioni offerte dal legislatore sono piuttosto articolate, strutturate in modo da vincolare le parti ad un approccio tendenzialmente anticipatorio del giudizio per forma, termini e natura. Si tratta di procedimenti che sebbene necessari, non hanno come ratio e finalità quelle di addivenire ad una composizione della lite in cui venga ricostituita una posizione di reale parità tra le parti in gioco. Non sono sempre strumenti sufficientemente snelli ed economicamente sostenibili; le parti non sono le reali protagoniste, in quanto per lo più la loro "voce" è garantita dalle figure che le rappresentano in un contesto istituzionale purtroppo oberato e non sempre fattivamente efficace ed idoneo al soddisfacimento dei reali bisogni di ciascuna. Troppo spesso, la composizione della lite porta ad una mera definizione avente carattere tecnico-giuridico, che non lascia spazio alla relazione, alla ricerca di vie alternative ed ulteriori rispetto a quelle dettate dal legislatore che, di fatto sono demandate alla decisione di un terzo, con tutte le conseguenze che ciò può portare. Benché senz'altro si tratti di strumenti di tutela del lavoratore, per sua natura la parte contrattuale considerata debole e voluti per cercare di riequilibrarne la forza contrattuale, ci si chiede se tali strumenti siano da soli davvero efficaci o se anche nella controversia stragiudiziale in materia di diritto del lavoro possa trovare sede la procedura della mediazione civile come regolamentata dal D. L. vo 28 del 2010, concreta alternativa alla risoluzione giudiziale delle controversie.

Spesso accade di interrogarsi sulla reale armonizzazione tra le procedure offerte all'operatore del diritto, soprattutto successivamente all'introduzione di procedure quali la mediazione civile e commerciale e della negoziazione assistita.

Ebbene; il legislatore nel disporre in ordine alle procedure di conciliazione parrebbe non aver mostrato sufficiente lungimiranza e chiarezza di visioni, perché a seconda della materia in cui si opera il tentativo di conciliazione, esso è in alcuni casi facoltativo e in altri obbligatorio, così come in alcuni casi è condizione di proponibilità dell'azione ed in altri di procedibilità. Nel tempo, peraltro, è intervenuto modificando gli istituti nelle differenti materie (locazioni, contratti agrari, comunicazione elettroniche, diritti dei Consumatori e utenti). La minore chiarezza è rappresentata proprio dalle controversie di lavoro, ove parrebbe mancare un criterio ragionevole, coesistendo ipotesi di conciliazione facoltativa accanto ad ipotesi di conciliazione obbligatoria.

Non è possibile confidare che il mero tentativo di conciliazione così come voluto dal legislatore possa realmente elevare il lavoratore ad una posizione paritaria nella controversia: peraltro, indipendentemente dalla facoltatività od obbligatorietà di una procedura e dal raggiungimento o meno dell'accordo, si ritiene che in procedure così volute difficilmente potrà trovare effettivo spazio la reale volontà delle parti, spesso non totalmente soddisfatte dell'esito della medesima.

La mediazione nelle controversie di lavoro: ipotesi di applicabilità

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Il D.Lgs. n. 28 del 4 marzo 2010 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversi civili e commerciali, è stato emanato in attuazione della delega prevista dalla legge n. 69 del 2010.

E' inevitabile, dunque, cercare di addivenire a tentativi di interpretazione di coordinamento tra differenti istituti dettati dal codice di procedura e dalle leggi speciali, soprattutto qualora ci si trovi innanzi a liti rientranti nelle c.d. materie non obbligatorie, quali quelle di lavoro, che potrebbero forse trovare appianamento nel concreto, economico, snello ambito della mediazione. Ciò soprattutto, se si riflette sull'incidenza sulla vita privata e di relazione che una lite in tale ambito può avere.

L'art. 1 del decreto n. 28 2010 precisa che il mediatore è "la persona o le persone fisiche che, individualmente o collegialmente, svolgono la mediazione rimanendo prive, in ogni caso, del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesimo" e la conciliazione è "la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione".

Termini da non confondere dunque, soprattutto allorché in materia di lavoro si parla spesso di conciliazione. Un'altra precisazione, poi, è d'obbligo: benché l'utilizzo della mediazione civile per la risoluzione delle controversie aventi quale oggetto conflitti di lavoro stia trovando graduale diffusione, rientrando nell'alveo della mediazione c.d. facoltativa, è bene chiarire che tale prassi attiene (ne' potrebbe altrimenti) i soli diritti c.d. disponibili; non, quindi, diritti quali quello alla contribuzione previdenziale, alle ferie, etc.

Al contrario, l'eventuale accordo raggiunto in mediazione, si esporrebbe al rischio di essere contrario alle norme imperative. Si ipotizza, a mero titolo esemplificativo, che possano trovare in mediazione spazio controversie attinenti la quantificazione dei trattamenti economici eccedenti la quantificazione e qualificazione data dalla contrattazione collettiva (es. superminimi); così come un eventuale incentivo all'esodo (indennizzo a fronte della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro) o, ancora, l'eventuale contrattazione in merito alla durata e gestione del periodo di preavviso.

E' noto che la previsione di invalidità sancita dall'art. 2113 c.c. secondo cui: "… le rinunzie [1236] e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide. L'impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza [2964], entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima [197 disp. att.]", è sanabile.

Dunque, un accordo negoziale viziato ai sensi dell'art. 2113 c.c., è senz'altro impugnabile mediante atto scritto, anche stragiudiziale: l'impugnazione, benché non vincolata da rigide formalità, non si presta tuttavia prima facie alla mediazione civile e commerciale, in quanto attiene rinunzie e transazioni non disponibili.

E' quindi piuttosto complesso riuscire a chiarire se e a quali condizioni le parti coinvolte in una controversia in materia di lavoro possano accedere alla procedura di mediazione senza incorrere nel rischio di pervenire ad accordi affetti da vizi. Probabilmente, sarà l'esperienza dettata dalla giurisprudenza che nel tempo orienterà il mediatore, ad esempio affinché non vengano utilizzate formule di stile quali "la somma di euro --- a saldo e stralcio", che i giudici di Cassazione negli anni hanno già ritenuto non essere idonee ad effettivamente tutelare il lavoratore.

La sfida che si presenta è, in concreto, quella di individuare ambiti e tecniche utili affinché sia possibile conferire all'accordo raggiunto in mediazione totale validità e inoppugnabilità e non incorrere nel veto sancito dall'art. 2113 c.c. L'efficacia dell'accordo potrebbe essere ratificata ad istanza congiunta delle parti presso la Ispettorato Territoriale del Lavoro, così come potrebbe essere prevista la partecipazione alla procedura di mediazione, quale esperto, di un rappresentate sindacale; in tal modo, in caso di sottoscrizione dell'accordo, esso potrebbe avere carattere di inoppugnabilità ex art. 411 c.p.c., essere quindi depositato presso l'Ispettorato Territoriale del Lavoro competente e così ottenere, in caso di necessità, l'attestazione di esecutività mediante decreto da parte del giudice.

La materia del diritto del lavoro spesso è stato il contesto in cui hanno trovato fertile terreno alcune tra le più rilevanti riforme normative, dettate contestualmente dal radicamento di prassi e dall'evoluzione sociale. Sin dal 1893, con la legge n. 295, hanno trovato spazio le prime norme con cui è stato regolamentato il procedimento di conciliazione; già all'epoca, quando le esigenze di pacificazione sociale prevedevano l'obbligatorietà del ricorso alla procedura, essa avveniva innanzi ad un ufficio di conciliazione, incaricato di comporre in via amichevole le controversie di lavoro, con particolare riguardo a quelle attinente i salari, l'orario di lavoro e lo scioglimento del contratto.

E' quindi evidente che la mediazione, oggi, non costituisce una novità assoluta nel rito lavoro, in cui è previsto il tentativo obbligatorio di conciliazione pregiudiziale: la novità risiede semmai nella possibilità di affidare la mediazione ad Organismi privati, assoggettati al controllo da parte della Pubblica Amministrazione.

Alla luce di quanto sopra, costituisce forte convincimento di chi scrive che la mediazione, intesa quale tecnica di risoluzione alternativa delle controversie anche nella materia di lavoro, abbia nel mediatore un negoziatore equi-prossimo alle parti; strumento davvero efficace di deflazione del contenzioso in sede giudiziaria e di ricerca di soluzioni non solo tecnico-giuridiche (demandate queste evidentemente all'avvocato e all'eventuale rappresentanza sindacale) ma altresì relazionali e di soddisfacimento di bisogni (di impresa e privati). Obiettivo, quest'ultimo, eccedente il ruolo del magistrato o del membro di un Consiglio o Commissione, ancorati, per loro natura, a determinarsi rispetto ai meri canoni tecnico-giuridici di petitum e causa petendi.

Se senza dubbio la fase pre-processuale della controversia, potrebbe costituire occasione di accesso alla mediazione c.d. facoltativa, così come quella di certificazione, si ritiene che anche la fase endo-processuale potrebbe costituire sede in cui esercitarla. Il magistrato, infatti, ben potrebbe invitare le parti ad avviare un procedimento di mediazione, magari nei casi in cui è palese la totale predominanza e potere esercitato dalla parte datoriale, spesso in posizione di chiusura rispetto ad ipotesi conciliative in ragione di uno status aziendale da osservare. La mediazione potrebbe, quindi, costituire valida ed efficace occasione, almeno, di transazione facilitata.

Riflessioni tutte quelle che precedono, che troveranno risposte più chiare nel tempo e con l'evoluzione delle prassi, anche giurisprudenziali.


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