Rileggiamo un passo di Croce sulla giustificazione della repressione pratica dell'errore
di Angelo Casella - Rileggiamo un passo di Croce: "Giustificazione della repressione pratica dell'errore. Conseguenza dello stabilito principio è la giustificazione di misure pratiche che inducano coloro che errano teoreticamente a correggersi, castigandoli, quando questo giovi ad ammonizione ed esempio. Mezzi d'altri tempi (si dice), ora siamo in tempi di libertà e non è più lecito adoperarli; ora si deve contare sulla sola forza persuasiva del vero. Ma coloro che così dicono, non hanno occhi per guardare intorno a sé. La santa Inquisizione è veramente santa, e vive perciò nella sua eterna idea: quella che è morta era nient'altro che una sua contingente incarnazione storica. E anche questa incarnazione contingente dovette essere, per un certo tempo, giustificata e benefica, se popoli interi la invocarono e difesero, se uomini di altissimo animo la fondarono e severamente e imparzialmente la ressero e gli stessi avversari l'applicarono per uso loro, e i roghi furono contrapposti ai roghi, onde Roma cristiana perseguitò gli eretici così come Roma imperiale aveva perseguitato i cristiani e i protestanti bruciarono i cattolici, così come i cattolici i protestanti.

Se ai giorni nostri certi espedienti feroci si sono messi da banda (si sono abbandonati definitivamente o non persistono sotto diversa apparenza?), non perciò si cessa dal premere praticamente sui manipolatori di errori.

Di codesta disciplina nessuna società può fare a meno, quantunque il suo modo di applicarla vada soggetto a sua volta alla deliberazione pratica (utilitaria o morale). Si comincia dall'uomo bambino, la cui educazione mentale è insieme e sopratutto educazione pratica e morale, educazione al lavoro e alla sincerità (né alcuno è mai stato seriamente educato, che non abbia ricevuto, a dir poco, qualche provvida ceffata o tirata d'orecchi), e si continua con le pene comminate nei codici per le negligenze e le ignoranze colpevoli, via via fino alla spontanea pedagogica morale, per la quale l'artista che produca il brutto, e lo scienziato che insegni il falso sono redarguiti dagli intelligenti o cadono presso costoro in discredito, al che povero e precario compenso è il plauso e il credito illegittimo e passeggero che talora ottengono dai non intelligenti e dalle moltitudini. La critica letteraria ed artistica ha sempre di necessità, e quanto meglio intenda l'ufficio suo, energia pratica e morale, che si concilia con la più pura esteticità e teoreticità nell'esame intrinseco delle opere".

(Benedetto Croce, Filosofia dello Spirito, III, Filosofia della Pratica, Economica ed Etica, 4a ed. Bari, Laterza, 1932, pp. 43, 44).

Il rapporto tra individuo e società

Ove non risultassero scritte da Croce, queste pagine non meriterebbero davvero particolare attenzione. Trattandosi però di un pensatore noto e seguito, è necessaria qualche puntualizzazione che aiuti ad evitare possibili devianze concettuali indotte, coinvolgendo esse, oltre ai valori essenziali dell'individuo (i c.d. Diritti fondamentali), il tema sensibile del rapporto tra individuo e società (e, quindi, la struttura politica di quest'ultima).

- Croce non propone argomentazioni a sostegno delle sue affermazioni: si limita a semplici asserzioni, nelle quali impropriamente mescola concetti difformi, in contesti totalmente inassimilabili, come la "provvida ceffata" e la "Santa Inquisizione", non senza concedersi anche "le pene comminate nei codici". Un pasticcio inestricabile, con il quale, tra l'altro un po' comicamente, giustifica, ex ante,la "repressione pratica" da lui stesso subita dagli squadristi per aver "errato teoreticamente", criticando il regime fascista con il famoso Manifesto. (E, per fortuna, all'epoca, non vi era più la "Santa Inquisizione"...).

- Opportuno innanzitutto chiarire che significhi "teoretico". Con questo termine si fa usualmente riferimento a quanto pertiene al complesso di idee e convinzioni dominanti, in una data società, in un dato momento storico.

Croce parla di "errore" (senza precisare con esattezza cosa qui intenda con tale termine, con riferimento al richiamato concetto) per colui che contesta o devia da tali convinzioni "dominanti", ma non specifica se queste ultime siano state imposte alla società, ovvero siano frutto spontaneo di questa e, comunque, perchè esse debbano prevalere a prescindere.

In sostanza, poi, chi, e con quale legittimazione, stabilisce che un dato giudizio o comportamento è errato e con quale autorità ne stabilisce una punizione? Con tali incertezze, Croce, (oltre a sé stesso), colpevolizza anche personaggi come Giordano Bruno e Galilei.

- Per affrontare correttamente il problema è innanzitutto necessario definire il contesto nel quale queste convinzioni sociali si formano e per qual via, ipoteticamente, assumono forza cogente. Il secondo punto riguarda il soggetto che ne decide la valenza imperativa. Il terzo, riguarda i contenuti di queste. Il quarto, infine, attiene alla loro possibile coercibilità sull'individuo singolo, in relazione al rispetto dei suoi diritti fondamentali.

- Parliamo qui di Diritti naturali che fanno parte del patrimonio del pensiero occidentale grazie al Diritto Romano e che, comunque, sono stati formalizzati sia nella Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789, sia in diverse esternazioni internazionali, come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948.

Sul piano sociale, cioè nel contesto collettivo, questi diritti sono - come è detta la justitia nel Digesto - ad alterum, e si radicano - appunto - nel principio di eguaglianza.

- Indubbiamente, il fenomeno cui sembra riferirsi Croce (cioè convinzioni imposte), presuppone un rapporto intersoggettivo tra qualcuno che comanda ed altri che è soggetto a tale potestà. Una relazione di potere, che può instaurarsi tra due persone, come arrivare ad interessare milioni di individui.

Si verifica anche con riguardo al mondo animale (con relative "repressioni" per l'essere che - secondo l'uomo - "erra"), ma limitiamoci alle interrelazioni fra persone. Restringiamo ancora l'ambito di indagine per circoscriverlo ai gruppi sociali, lasciando da parte la realtà familiare e i rapporti fra due persone.

Anche in questo scenario, imporre delle direttive implica disporre di un certo potere su altri, che diventano i destinatari di queste.

- In base al principio di diritto naturale della eguaglianza fra gli esseri umani (ribadito anche dall'art. 3 della Costituzione), ogni potere di un uomo su di un altro deve essere giustificato da una qualche forma di consenso: il potere, infatti, "non si giustifica per sé stesso" (Joseph Heller).

Il concetto di entità collettiva

Parlando di gruppi sociali, è necessario introdurre il concetto di entità collettiva, nozione fondamentale del Diritto pubblico.

Costituisce una collettività quel gruppo di individui che hanno un motivo, (o "titolo") per stare insieme (anche temporaneamente, come per svolgere una attività specifica, sportiva, di studio, od altro).

Può accadere che detto titolo sia un legame di sangue (come nelle tribù), ovvero una stessa base culturale o nazionale, oppure semplicemente il fatto che le persone sono insediate su di un territorio specifico, identificato da individuati confini amministrativi o politici.

Questo titolo rappresenta, ad un tempo, il collante causale del gruppo, che ne specifica la motivazione, e l'ambito entro il quale può applicarsi la volontà "comune", cioè quella deputata a gestire tutto ciò che corrisponde al "titolo" del gruppo stesso.

Ad esempio, il Consiglio Direttivo della Bocciofila Taurinense, potrà esprimere una volontà "collettiva", con efficacia vincolante sui soci, solo nell'ambito di quanto attiene all'attività specifica e non, al caso, sulla educazione dei figli dei soci.

- Più delicato definire il perimetro di competenza della volontà comune allorché si tratti di comunità complesse, come nel caso di una nazione. Ma, per quanto ciò appaia di fondamentale importanza, non risulta comunque che nessuna indagine sia mai stata svolta in ordine alla definizione delle materie delle quali astrattamente possa occuparsi il Parlamento, voce della "volontà sociale".

- Soccorre, tuttavia, in proposito, il riferimento all'interesse comune che, in qualunque ipotesi, deve necessariamente essere presente.

In altri termini, ogni disposizione emessa dalla "volontà collettiva" che regolamenti la vita e gli interessi dei componenti il gruppo sociale, deve necessariamente ed inderogabilmente concernere l'interesse comune, il preciso ambito alla cui trattazione è per l'appunto rigorosamente ed esclusivamente circoscritta la legittimazione della medesima "voce comune".

Pertanto, qualsiasi disposizione che fuoriesca da questi confini per riguardare interessi particolari o pertinenti a centri specifici, non può assurgere alla dignità di norma generale (ed il Magistrato non dovrebbe applicarla).

A semplice titolo esemplificativo si possono ricordare alcuni emblematici casi recenti di leggi che non rispettano il ripetuto principio, come le privatizzazioni, le cessioni a privati dei servizi pubblici, la consegna del risparmio bancario della collettività alla speculazione privata, l'approvazione di sgravi fiscali e incentivi per oltre 80 miliardi, in tre anni, per i soci di Confindustria, l'autorizzazione ai proprietari delle autostrade ad applicare aumenti straordinari alle tariffe, le facilitazioni alle sale giochi, il regalo di manodopera gratuita con l'alternanza scuola-lavoro, la cancellazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, la liberalizzazione dei voucher, la riduzione della custodia cautelare, le limitazioni dei casi di sequestro dei beni ai corrotti accusati di associazione a delinquere, ecc.

Quando il Presidente della Repubblica promulga una legge ha l'obbligo primario di assicurarsi che essa realmente si occupi dell'interesse collettivo. Nell'esercizio delle sue funzioni, infatti, egli "rappresenta l'unità nazionale" (art. 87 Cost.), e tale "unità" è per l'appunto espressa da tale interesse (che poi corrisponde al titolo associativo).

Anche il travagliato problema del "conflitto di interessi" avrebbe dovuto trovare soluzione ricorrendo al semplice concetto della suprema tutela dell'interesse comune.

D'altronde, il senso primario del concetto di democrazia risiede proprio in questo coinvolgimento collettivo, di cui la cura dell'interesse collettivo è la basilare espressione.

A livello politico, rientra nella struttura stessa del concetto di base di democrazia il pieno riconoscimento (e la connessa tutela), di tali diritti individuali. Tra questi, in primo luogo, poiché si è parlato di Inquisizione, la piena libertà di culto e, a questa direttamente connessa, la libertà di opinione e di espressione.

Legittimare quindi, come fa il Croce, la Santa Inquisizione, è un grave abbaglio, sia logico sia giuridico.

- Al pari, incidentalmente e per sola affinità di argomento, allorché un qualche fedele sostiene che la propria religione è quella "vera" e disprezza e condanna le altre, al tempo stesso egli commette danno a sé medesimo, in quanto nega agli altri la libertà di fede, e così facendo implicitamente dichiara che la propria professione di fede non è frutto di libera scelta, contemporaneamente rifiutando perciò anche a sé stesso tale diritto, che viene negato come tale. Grazie alla fede, crediamo vere determinate cose, non per la loro verità oggettiva, ma per l'autorità del Dio rivelante nel quale, appunto, si ha credenza.

- Dall'ambito comunque della potenziale area di intervento della volontà collettiva è rigorosamente da escludere quanto ha riguardo ai diritti fondamentali dell'uomo che - come tali - sono da questa assolutamente intoccabili e estranei alla propria legittima area di intervento.

Nessuna intromissione, dunque, è di conseguenza ammissibile nella libertà di autodeterminazione in quegli ambiti, strettamente personali, che pertengono alla sua essenza di essere umano, come l'aborto, la sottoposizione a cure mediche, e simili. Alla volontà collettiva è riservato tutto ciò che possa rivestire una dimensione ad alterum, ossia quanto invade la sfera personale altrui.

- Ed è qui, in particolare, che si incontra il problema centrale del rapporto tra cittadino e società ed i cui contorni sono propriamente condizionati dalla struttura ed organizzazione di quest'ultima.

Quando tale organizzazione è basata sulla partecipazione e sul controllo delle istituzioni collettive, si creano le condizioni teoriche per un corretto riconoscimento dei diritti di tutti. Si tratta della democrazia effettiva, purtroppo non rintracciabile nella pratica politica attuale.

Per il noto commentatore statunitense Lippmann, al popolo deve essere conferito un ruolo di spettatore, non di protagonista o di partecipante. Ed è, questa, una comunemente accettata - e applicata - alterazione del concetto di democrazia, la cui essenza risiede invece nella partecipazione all'ordinamento sociale. Ma non solo. Ne sono componenti basilari la libertà individuale, la cultura della solidarietà, la libera scelta del lavoro, elementi che formano i presupposti per realizzare il progresso umano. Il lavoro creativo si può infatti considerare come il valore centrale dell'uomo e, proprio per tale motivo il filosofo Dewey considerava la democrazia non un fine, ma un mezzo.

- Una certa umana esigenza a distinguersi, a mostrarsi diversi, a stabilire una relazione di alterità, ha determinato, nel percorso storico della società, ed in dipendenza di una specifica organizzazione basata sull'homo oeconomicus di Adam Smith, il formarsi di accumuli individuali di ricchezza, evolutisi in centri di interesse economico e addirittura in classi. (Fanno eccezione soltanto alcuni gruppi etnici in Amazzonia o nell'estremo Nord del pianeta, dove la solidarietà costituisce il valore sociale preminente).

Queste concentrazioni private di risorse tendono, automaticamente, ad impossessarsi delle istituzioni pubbliche o, almeno, ad influenzarle e dirigerle, onde ottenere vantaggi specifici e mantenere quelli acquisiti.

Sono quelli che Orwell definiva "più uguali degli altri". Si rifletta che, in Italia, (dati B.I., 2017), il 5 per cento della popolazione possiede oltre un terzo della ricchezza nazionale. Il denaro è potere e le oligarchie che così si formano (in quella degenrazione della democrazia stigmatizzata da Aristotele e da Polibio), tendono ad utilizzare il potere pubblico per accrescere il proprio e creare un "sistema privato di profitto sostenuto e protetto dal governo" (Nieburg).

Per A. Smith, chi possiede le ricchezze della società, ne determina le scelte politiche. Fra questi, sono coloro che usano portare avanti i loro interessi senza curarsi dei sacrifici e dolori imposti al popolo perché ciò "non è affar loro" (E.C. Ladd). Il denaro sostiene un sistema di potere che è rafforzato con il dominio dei media e dei mezzi di pubblicità e di propaganda (v.: Chomsky, La fabbrica del consenso, ed. Il Saggiatore, 1998), utilizzati per convincere il popolo che è lui che decide il proprio destino. Secondo Platone, il popolo può accettare solo la menzogna e su tale convinzione, lo stato tendenzialmente oligarchico di oggi, ha elaborato un sistema elettorale tendenzialmente solo ornamentale (Ern. Mayer).

- All'opposto, l'organizzazione sociale potrebbe configurarsi in senso contrario, secondo quella che Platone descriveva come "degenerazione della democrazia", ossia la tirannia della maggioranza con la quale la massa dei poveri priverebbe i ricchi delle loro sostanze.

Anche Polibio sosteneva che tutte le forme di governo erano comunque destinate ad una degenerazione progressiva: dalla monarchia si sarebbe passati alla tirannide, dall'aristocrazia all'oligarchia, alla democrazia, alla olocrazia. Più o meno dello stesso parere anche Cicerone nel suo De Re Publica.

Comunque lo scenario che terrorizzava i padri della Costituzione americana (e, in particolare, Madison, il cui volto venne poi riprodotto sul biglietto verde), era il potere nelle mani del popolo.

Madison sosteneva che è compito essenziale del governo difendere la minoranza dei ricchi dalla maggioranza e così architettò un sistema istituzionale che rendeva impossibile un corretto funzionamento della democrazia, affidando direttamente il potere alla "classe migliore". Il resto della popolazione doveva essere marginalizzato e diviso, convincendolo che il compito di governare spetta ai ricchi. La Costituzione americana venne poi in effetti costruita su questi principi.

Platone, in luogo di consegnare il potere ai benestanti, riteneva che migliore alternativa fosse quella di prevenire le diseguaglianze, gestendo la società in modo da evitare che si creassero le condizioni per l'accumulo di grandi ricchezze.

Un'altra opzione - comunque decisiva - è quella di gestire la cosa pubblica con ferreo riferimento costante all'interesse comune, evitando che prevalgano le meschine convenienze ed i calcoli contingenti e mediocri.

Questo potere è - come abbiamo già visto - nelle mani del Presidente della Repubblica.

Allorché esercita la funzione di promulgare le leggi (art. 87 Cost.), egli dovrebbe effettuare con estrema attenzione un accertamento preliminare fondamentale: rispetta, la legge sottopostagli, l'interesse collettivo?

La cosa non sempre è ovvia (nonostante questa provenga dal Parlamento, l'organo deputato ad esprimere la volontà collettiva), sostanzialmente per due motivi.

Il primo discende dalla cosiddetta "disciplina di partito", una deviante invenzione studiata per assoggettare gli adepti alla volontà dei vertici e frutto dell'abnorme struttura verticistica di fatto imperante. Può così verificarsi che il capo o i capi dei partiti che dispongono della maggioranza parlamentare subiscano pressioni e influenze particolari tali da indurli a proporre e far approvare provvedimenti che hanno per obbiettivo solo la tutela di dinteressi specifici.

Superfluo sottolineare la contrarietà di tale indirizzo all'art. 67 della Carta, per il quale ogni membro del Parlamento "rappresenta la nazione" (e non il Partito).

Il secondo, fortemente meschino e squallido, ma assai efficace per alcuni, è di perdere la poltrona di parlamentare (ed i connessi iperbolici benefici) o, comunque, di essere emarginati ed esclusi da redditizi incarichi interni.

Auspicabile che tali questioni formino oggetto di meditata attenzione da parte delle prossime aggregazioni parlamentari, onde evitare che gli indicati "errori teoretici" continuino ad inibire la corretta realizzazione del modello democratico nella struttura della cosa pubblica.

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