Per la Cassazione, si configura il reato di maltrattamenti in famiglia quando si impedisce alla moglie di lavorare

di Rosa Valenti - In materia di reati contro la famiglia nel caso in cui un coniuge ponga in essere intenzionalmente e con abitualità una serie di condotte che mirino a denigrare, svilire e umiliare l'altro coniuge con il solo scopo di impedirle di svolgere un'attività lavorativa si configura l'ipotesi del reato di maltrattamenti in famiglia.

Maltrattamenti in famiglia impedire al coniuge di lavorare

In una recente sentenza la Corte di Cassazione ha statuito che "commette il reato di maltrattamenti in famiglia, il coniuge che ponga in essere a danno della moglie, condotte abituali, quali percosse, minacce di morte, intimidazioni psicologiche, vessazioni, umiliazioni, nonché svilimenti tesi a volerle impedire di svolgere attività lavorativa" (Cass. Sez.VI pen. Sent. 6-31 ottobre 2017, n. 49997).

Nel caso di specie, l´imputato ha posto in essere una serie di aggressioni in prima facie scagliandosi su oggetti e suppellettili di casa e solo in un momento successivo scagliandosi sulla moglie attraverso minacce di morte, percosse, reazioni d´ira. Il motivo determinante che scatenava queste reazioni erano i continui impegni lavorativi della moglie, che ad avviso dell´imputato, non erano conciliabili con i rapporti familiari. La stessa donna temendo anche aggressioni durante il sonno era stata, all´epoca dei fatti, costretta a rifugiarsi dapprima presso i parenti per poi prendere un appartamento in affitto.

Invece, per quanto concerne l´aspetto probatorio, la Corte si è espressa nel senso che "sotto il profilo probatorio, non applicandosi le regole dettate dall´articolo 192, comma 3, c.p.p. alle dichiarazioni della persona offesa, le stesse potranno porsi da sole a fondamento dell´affermazione di penale responsabilità dell´imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione e più penetrante e rigorosa rispetto a quella in cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi altro testimone, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell´attendibilità intrinseca del suo racconto".

Sulla base delle considerazioni su esposte, si evince che le dichiarazioni della vittima del reato valgono come prova piena ai fini della determinazione della responsabilità penale del reo.

Dott.ssa Rosa Valenti

Criminologa

Studio Legale a Bolzano

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