Alla tutela della maternità non si può rinunciare e l'aut aut del datore di lavoro è sempre illegittimo

Avv. Elisabetta Roli - Tra le varie prassi adottate dai datori di lavoro a tutela del rendimento economico della propria azienda ve n'è una tanto bizzarra quanto ormai frequente: la richiesta, alla propria dipendente, della sottoscrizione della rinuncia alla maternità.

Vuoi mantenere il posto di lavoro? Vuoi fare carriera e avere una promozione? Allora rifiuta il progetto di una gravidanza, quanto meno per alcuni anni.

La donna lavoratrice e forme di tutela

Il riconoscimento culturale e socio-politico della donna, si sa, è frutto di una conquista maturata nel tempo e la storia ne ha visto penalizzata la posizione su vari fronti, non da ultimo quello lavorativo. Chi storce(va) il naso nel vederle attribuiti ruoli di responsabilità, di vertice aziendale, chi esitava ad accordarle il medesimo stipendio spettante al collega di sesso maschile...sono solo esempi di una forma mentis che si è progressivamente evoluta ma che sembra non essere stata completamente digerita e fatta propria da tutti.

La prassi discriminatoria sul luogo di lavoro

E più le forme di tutela della donna a livello costituzionale, comunitario e nazionale si impongono a grandi caratteri in modo sempre più pregnante, insieme con le rivendicazioni di diritti di parità, uguaglianza e quote rosa, ecco il parallelo aumento delle differenze e, in sordina, delle ufficiose pratiche "di riparazione" dei datori di lavoro.

Una richiesta, più o meno cogente, alla propria dipendente di rinunciare ad una futura gravidanza in favore di un posto di lavoro o di uno scatto di carriera, in fondo, si basa su una libera scelta della donna. Questa, in via autonoma, preso atto delle condizioni e della policy di una determinata azienda (ricordiamo tutti la famosa clausola Rai che nel 2012 scatenò accese polemiche), decide liberamente se accettare o meno il pacchetto. Ragioni di economia e sviluppo aziendale portano il titolare a fare scelte orientate secondo il criterio del maggior profitto e rendimento dei propri dipendenti. E allora? E' sbagliato? Quale il confine?

Insomma, trovata la legge, trovato l'inganno?

Non proprio.

La posizione della Suprema Corte

La giurisprudenza della Suprema Corte ha ripetutamente escluso la legittimità del licenziamento della lavoratrice - neo mamma o con progetti di diventarlo- per motivazioni discriminatorie, non da ultima la nota sentenza di Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 6575 del 5 aprile 2016, Pres. Roselli, Rel. Spena).

In detta pronuncia gli Ermellini sanciscono la nullità del licenziamento della lavoratrice motivato dal proposito della medesima di sottoporsi a pratiche di inseminazione artificiale. Il licenziamento

fondato su tale base è da intendersi discriminatorio alla luce della corretta lettura della Direttiva Europea 76/207 CEE e successive modifiche, che vieta disparità di trattamento atte a costituire discriminazioni dirette fondate sul sesso. E tale discriminazione, afferma la Corte, contrariamente al motivo illecito ex art.1345 c.c. (che deve essere stato il solo ed unico motivo determinante ai fini del licenziamento) "opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro".

Come a dire, la tutela della maternità presente o futura non è derogabile. Non è un diritto disponibile, non è rinunciabile e non si sceglie.

Si arriva al paradosso?

Ma, allora, ci si chiede: il diritto alla maternità avrebbe rango superiore rispetto al diritto di orientare la propria vita secondo le proprie inclinazioni e sulla base di scelte maturate in libertà e piena consapevolezza (passatemi la semplificazione, diritto alla carriera)?

Se la Costituzione difende la donna attraverso la cristallizzazione dei principi di uguaglianza (art.3), di tutela della famiglia e della maternità (art. 31), e della lavoratrice madre (art.37, comma 1°), non sarebbe configurabile la violazione di questi medesimi diritti laddove alla dipendente fosse negato il potere di scelta e di rinuncia? Se così fosse ci si troverebbe, paradossalmente, di fronte ad interessi-beni giuridici, pur previsti dall'ordinamento costituzionale ma degni di una più debole protezione.

Siamo tecnici del diritto, artigiani dei cavilli e un po' filologi di ogni parola. Sempre in cerca dell'anello debole e dell'incongruenza e pertanto mi sia concesso l'iperbolico quesito.

Chiaramente la risposta è no.

Se così fosse si perderebbe di vista la ratio della composita normativa che disciplina l'argomento e sarebbero calpestati tutti i passi avanti che storicamente si sono conquistati.

La giurisprudenza non si spinge fin là ma tronca ab origine una possibilità di forzatura interpretativa e decreta che ciò che è illegittimo è semplicemente il porre la donna di fronte ad una scelta di questo tipo.

La donna lavoratrice potrà certamente scegliere la carriera in via esclusiva ma potrà farlo, quanto meno formalmente ed astrattamente, se la sua opzione di maternità non sia esplicitamente messa in discussione dal datore di lavoro.

Come poi riuscire a conciliare, in concreto, i due aspetti, ancora non è dato sapere.

Avv. Elisabetta Roli

elisabetta.roli@gmail.com


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