Per il Consiglio di Stato, alle procedure aventi ad oggetto le concessioni di servizi si applica il rito speciale previsto per gli appalti pubblici

di Marco Ceruti (avv.marcoceruti@gmail.com- Alle procedure aventi ad oggetto le concessioni di servizi si applica il rito speciale previsto per gli appalti pubblici. Lo ha affermato il Consiglio di Stato con sentenza n. 22/2016 (sotto allegata).

Il caso controverso

La controversia ha riguardato il ricorso proposto da una società s.r.l. avverso l'affidamento di una concessione di servizi ad altra s.r.l., respinto dal giudice di prime cure poiché considerato irricevibile per tardività.

Con la sentenza impugnata dinanzi al Consiglio di Stato, il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo (sez. I, 28 gennaio 2016, n. 34) aveva dichiarato irricevibile il ricorso in quanto proposto oltre il termine di decadenza di trenta giorni dalla comunicazione dell'aggiudicazione della gara alla controinteressata, termine previsto dall'art. 120, comma 5, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 - cd. "Codice del processo amministrativo" (c.p.a.) - e giudicato applicabile anche alle procedure aventi ad oggetto le concessioni di servizi pubblici.

Il T.A.R. aveva altresì negato la concessione del beneficio della rimessione in termini per errore scusabile, condividendo l'orientamento giurisprudenziale secondo cui la mancanza, nel provvedimento impugnato, delle indicazioni richieste dall'art. 3, comma 4, della legge n. 241 del 7 agosto 1990, concernenti il termine per l'impugnazione e l'Autorità cui ricorrere, "non solo non è causa autonoma di illegittimità, rappresentando soltanto una mera irregolarità, ma non giustifica, di per sé, neppure l'automatica concessione del beneficio della rimessione in termini per errore scusabile, riconoscimento che può trovare applicazione solo qualora nel singolo caso sia apprezzabile una qualche giustificata incertezza sugli strumenti di tutela utilizzabili da parte del destinatario dell'atto, dovuta ad una situazione normativa obiettivamente ambigua o confusa, ad uno stato di obiettiva incertezza per le oggettive difficoltà di interpretazione di una norma, alla particolare complessità della fattispecie, a contrasti giurisprudenziali o al comportamento dell'Amministrazione idoneo, perché equivoco, a ingenerare convincimenti non esatti" (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. V, n. 3710 del 28 luglio 2015).

Avverso la predetta decisione ha proposto appello la società ricorrente in primo grado, criticando la gravata statuizione di irricevibilità del ricorso, sulla base dell'assunto dell'estraneità delle procedure di concessione dei servizi pubblici all'ambito applicativo degli artt. 119 e 120 c.p.a., e sostenendo comunque la sussistenza dei presupposti per la concessione del beneficio dell'errore scusabile.

Con ordinanza n. 1927/2016 in data 12 maggio 2016 la Terza Sezione, dopo aver disatteso l'istanza cautelare di sospensione della sentenza appellata, rimetteva all'Adunanza Plenaria la soluzione delle questioni relative all'applicabilità del combinato disposto degli artt. 119, comma 1, lett. a), e 120 c.p.a. alle concessioni di servizi pubblici e, in caso di soluzione positiva al primo quesito, alla concedibilità del beneficio della rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell'art. 37 c.p.a.

La decisione dell'Adunanza Plenaria

La sentenza in commento si compone essenzialmente di tre parti distinte, nelle quali l'Adunanza Plenaria affronta in successione tre diversi aspetti della controversia:

1. l'inquadramento della fattispecie come concessione di servizio pubblico;

2. l'applicabilità del combinato disposto degli artt.119, comma 1, lett. a), e 120 c.p.a. alle concessioni di servizi pubblici;

3. la riconoscibilità del beneficio della rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell'art. 37 c.p.a.

L'inquadramento della fattispecie

Sia la Terza Sezione rimettente sia l'Adunanza Plenaria concordano sulla qualificazione della procedura controversa come avente ad oggetto una concessione di servizi ai sensi dell'art. 30 del d.lgs. n. 163/2006 (vigente al momento dell'indizione della gara, ora abrogato e sostituito dal decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, di riforma del Codice dei contratti pubblici).

Preso atto che "Dalla scarna disciplina contenuta in quest'ultima disposizione si ricava unicamente che le concessioni di servizi sono strutturate in modo che al concessionario spetta solo "il diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio" (senza alcun onere economico a carico dell'amministrazione concedente, che, anzi, riceve solitamente un corrispettivo dal concessionario per l'attribuzione del predetto diritto) e che il loro affidamento resta sottratto all'applicazione delle regole stabilite per l'aggiudicazione degli appalti e obbedisce ai soli principi generali in materia di contratti pubblici", l'Adunanza Plenaria esamina allora la giurisprudenza nazionale ed europea in materia concessoria al fine di individuare i criteri discretivi più sicuri ed affidabili per distinguere tra appalti e concessioni di servizi.

Essi sono identificati:

- nell'assunzione, da parte del concessionario, del "fattore rischio", implicato dalla traslazione al gestore dell'incertezza sull'utilità economica dell'erogazione del servizio, che caratterizza le concessioni e le distingue dagli appalti (Corte di Giustizia UE, 13 ottobre 2005, causa C-458-03 - Parking Brixen GmbH);

- nella somministrazione del servizio a favore della generalità degli utenti, e non solo alla pubblica amministrazione (Cass. Civ. SS. UU., 27 maggio 2009, n. 12252);

- nella esclusiva coincidenza del corrispettivo con il diritto di sfruttare economicamente il servizio, ovvero in tale diritto accompagnato da un prezzo (cfr. ex multis Cons. St., sez. VI, 21 maggio 2014, n. 2624);

- da ultimo, nella traslazione a un soggetto privato della facoltà di esercizio del servizio, ferma restando la titolarità della funzione in capo all'Amministrazione concedente (Cons. St., sez. VI, 16 luglio 2015, n. 3571).

La pronuncia non manca di rimarcare che "Le carenze regolative ravvisabili nell'art. 30 del d.lgs. n. 163 del 2006 (e nella presupposta, pressoché inesistente, disciplina europea), le relative incertezze applicative e la crescente diffusione dello strumento concessorio (sia in ordine ai lavori che ai servizi), dovuta alla crisi economica e alla connessa esigenza di ricorrere con maggiore frequenza al capitale privato, a fronte della drastica diminuzione di investimenti pubblici, hanno imposto (finalmente) l'introduzione, prima a livello europeo (con la direttiva 2014/23/UE) e poi nazionale (con gli artt. 164 e seguenti del d.lgs. n. 50 del 2016), di una completa e dettagliata disciplina normativa, sia in ordine agli aspetti sostanziali del contratto di concessione, che riceve una definizione puntuale dei suoi elementi costituivi (con l'opportuna precisazione del carattere essenziale del trasferimento, almeno in parte, del rischio operativo), sia in merito alle modalità di procurement, con una tendenziale e strutturata assimilazione delle procedure di affidamento delle concessioni a quelle di aggiudicazione degli appalti."

Il nuovo d.lgs. n. 50/2016, recependo la direttiva 2014/23/UE, ha invero provveduto ad attenuare l'incertezza del diritto relativa ad una fattispecie che nella prassi assume sempre più rilevanza : "La definizione della concessione di servizi rinvenibile nell'art. 3, comma 1, lett. vv), d.lgs. n. 50 del 2016, come un "contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi diversi dall'esecuzione di lavori di cui alla lettera ll) riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei servizi" e la previsione di puntuali e cogenti regole procedurali per l'affidamento dei servizi in concessione consentono di ritenere, ormai, superate gran parte delle difficoltà definitorie e delle ambiguità regolative prodotte dalla scarna disciplina preesistente."

All'esito di questo excursus sulla figura della concessione, l'Adunanza Plenaria ne ha ravvisato la sussistenza nel contratto con cui una pubblica amministrazione affida a un operatore economico il diritto di installare e gestire un distributore automatico di alimenti e bevande: "In tale fattispecie, infatti, per un verso, il rischio economico della gestione viene assunto in via esclusiva dal gestore (che, anzi, corrisponde all'Amministrazione un prezzo in cambio dell'affidamento del diritto alla gestione del distributore automatico) e, per un altro, l'erogazione del servizio viene rivolta, non già all'Amministrazione, ma alla collettività degli utenti che frequenta la struttura pubblica (Ospedale, Università, ecc.) dove viene installato il distributore (cfr. ex multis Cons. St., sez. VI, 4 settembre 2012, n. 4682)."

La prima questione devoluta

La prima questione devoluta allo scrutinio dell'Adunanza Plenaria resta circoscritta alla disamina del perimetro applicativo delle disposizioni del c.p.a. dedicate a regolare il rito speciale in materia, tra l'altro, di "affidamenti di servizi" e, in particolare, alla verifica se siano o meno ascrivibili entro i suoi confini anche le controversie relative alle concessioni di servizi pubblici previste dall'art. 30 del d.lgs. n. 163/2006.

Con riferimento alla concessione di servizio pubblico, infatti, la giurisprudenza amministrativa ha dato luogo ad un contrasto di indirizzi, che esige un chiarimento definitivo del problema:

- da un lato, una lettura restrittiva dell'ambito applicativo dell'art. 119, comma 1, lett. a), che esclude, cioè, la sua applicazione anche alle concessioni di servizi pubblici (Cons. St., sez. VI, 28 maggio 2015, n. 2679; Cons. St., sez. V, 14 ottobre 2014, n. 5065; Cons. St., sez. VI, 21 maggio 2014, n.2620; Cons. St., sez. VI, 16 gennaio 2014, n. 152);

- dall'altro, un'esegesi più ampia, che vi comprende anche le controversie aventi ad oggetto le concessioni (Cons. St., sez. V, 1° agosto 2015, n. 3775; Cons. St., sez. III, 29 maggio 2015, n. 2704; Cons. St., sez. VI, 29 gennaio 2015, n. 416; Cons. St., sez. V, 28 luglio 2014, n. 3989; Cons. St., sez. V, 12 febbraio 2013, n. 811).

La questione devoluta all'esame dell'Adunanza Plenaria può, quindi, essere riassunta nella disamina dell'ascrivibilità delle controversie aventi ad oggetto gli affidamenti di concessioni di servizi pubblici entro i confini dell'ambito applicativo del combinato disposto degli artt. 119 e 120 c.p.a. e, in particolare, nell'identificazione del termine di decadenza per la proposizione del ricorso di primo grado in quello (dimezzato) di trenta o in quello (ordinario) di sessanta giorni. Si tratta, in altri termini, di verificare se, nella locuzione "provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture", siano o meno compresi anche i provvedimenti concernenti le procedure aventi ad oggetto le concessioni.

Secondo l'Adunanza Plenaria, "La natura eccezionale delle disposizioni menzionate impone, innanzitutto, all'interprete di evitare l'utilizzo di canoni interpretativi estensivi e analogici, ma anche teleologici", cosicché "l'operazione ermeneutica dev'essere condotta alla stregua del (solo) criterio letterale, al fine di verificare se nel significato dell'espressione testuale descrittiva delle controversie assoggettate al rito speciale rientrino o meno anche le liti relative ai provvedimenti concernenti le concessioni."

Così identificato il paradigma interpretativo in coerenza con il quale dev'essere risolto il quesito indirizzato, l'Adunanza Plenaria rileva che "l'espressione "procedure di affidamento", usata dall'art. 119, comma 1, lett. a), c.p.a., ha ricevuto una definizione puntuale all'art. 3, comma 36, del d.lgs. n. 163 del 2006 (ma, poi, ripetuta, con le medesime parole, dall'art. 3, lett. rrr, nel d.lgs. n. 50 del 2016) nei termini che seguono: "Le «procedure di affidamento» e l'«affidamento» comprendono sia l'affidamento di lavori, servizi, o forniture, o incarichi di progettazione, mediante appalto, sia l'affidamento di lavori o servizi mediante concessione, sia l'affidamento di concorsi di progettazione e di concorsi di idee." […] a fronte di una definizione così chiara del significato dell'espressione contenuta nell'art. 119, comma 1, lett. a) c.p.a., non residua spazio per esegesi difformi da essa, alla quale l'interprete deve intendersi, infatti, vincolato."

Per il Supremo giudice amministrativo "non v'è alcun dubbio che la nozione di "procedure di affidamento" resta tecnicamente compresa nella materia dei contratti pubblici ed ontologicamente avulsa da quella del processo amministrativo" e "deve, quindi, concludersi nel senso che a un'espressione lessicale non può assegnarsi un significato diverso da quello reso palese dalla formula definitoria usata nel medesimo provvedimento che la contiene. Né il segnalato vincolo semantico può intendersi annullato o diminuito quando l'espressione oggetto di indagine ha ricevuto una definizione in un diverso e precedente atto normativo".

Al dirimente (e, di per sé, decisivo) argomento letterale, appena illustrato, la decisione aggiunge le ulteriori considerazioni che seguono:

- la valenza generale del termine "affidamento" deve intendersi come comprensiva di tutte le tipologie contrattuali in relazione alle quali resta logicamente concepibile un affidamento e, quindi, sia degli appalti che delle concessioni;

- il criterio ermeneutico finalistico, ancorché non utilizzabile in via principale o esclusiva, suggerisce che la ratio del rito speciale in questione, agevolmente identificabile nell'esigenza della sollecita definizione dei giudizi aventi a oggetto provvedimenti amministrativi riferibili all'esercizio di funzioni pubbliche che implicano la cura di interessi generali particolarmente rilevanti (e che, come tali, non tollerano una prolungata situazione giudiziaria di incertezza), risulta riferibile nella stessa misura alle controversie relative agli appalti e a quelle concernenti le concessioni;

- le ineludibili esigenze sistematiche di sicurezza giuridica e di coerenza ordinamentale impongono di assoggettare al rito speciale anche le procedure concernenti le concessioni, al fine di evitare ogni incertezza circa le regole processuali applicabili ai contratti misti (di cui all'art. 169 del d.lgs. n. 50/2016).

Di conseguenza, l'Adunanza Plenaria ha stabilito la reiezione del primo motivo di appello e la conferma della statuizione dichiarativa dell'irricevibilità del ricorso di primo grado.

La seconda questione devoluta

Come anticipato, l'altra questione sottoposta all'esame dell'Adunanza Plenaria attiene al beneficio della rimessione in termini per errore scusabile, ai sensi dell'art. 37 c.p.a.

Il Collegio non ha ignorato - anzi, ha condiviso - i principi costantemente affermati in merito alla natura eccezionale del predetto beneficio ("Se è vero, infatti, che la norma che disciplina l'istituto in esame deve intendersi di stretta interpretazione, in quanto si risolve in una deroga della regola relativa agli effetti decadenziali prodotti dall'inosservanza di un termine processuale perentorio (Cons. St., sez. V, 28 luglio 2014, n.3986) e che una somministrazione eccessivamente benevola del relativo beneficio "finirebbe per inficiare il principio, quantomeno di pari dignità rispetto all'esigenza di assicurare l'effettività della tutela giurisdizionale, della parità delle parti relativamente all'osservanza dei termini processuali perentori" (Cons. St., Ad. Plen., 19 novembre 2014, n.33), è anche vero che, al fine di garantire una qualche utilità alla norma in questione, risulta necessario riconoscerne l'applicabilità a situazioni in cui siano ravvisabili oggettive ragioni di incertezza in ordine alla durata del termine che la parte ha mancato di rispettare."), ma ha reputato che, nella fattispecie, ricorrano le condizioni che autorizzano - anzi, impongono - la rimessione in termini dell'impresa ricorrente: "nel caso in esame si è verificata una situazione in cui, ancorché la disposizione legislativa fosse testualmente interpretabile come comprensiva, nel suo ambito applicativo, anche delle controversie in materia di concessioni di servizi, non poche decisioni del Consiglio di Stato l'hanno letta, valorizzando il suo carattere eccezionale e derogatorio, come riferita solo ai ricorsi in materia di appalti, escludendo espressamente, dal suo perimetro operativo, i giudizi in materia di concessioni. A fronte della controversa e incerta elaborazione giurisprudenziale appena descritta, appare, per un verso, arduo giudicare inescusabile l'errore in cui è incorsa la parte che, aderendo a un significativo e consistente indirizzo giurisprudenziale, ha (in buona fede) ritenuto che il termine per la proposizione del ricorso fosse di sessanta (e non di trenta) giorni e, per un altro, doveroso il riconoscimento in favore di quest'ultima del beneficio della rimessione in termini."

A detta dell'Adunanza Plenaria, difatti, "Una interpretazione eccessivamente rigorosa dell'art. 37 c.p.a., che comportasse, cioè, il rifiuto del beneficio della rimessione in termini anche nella situazione in esame, finirebbe, a ben vedere, per vanificare la finalità dell'istituto e per privarlo di ogni utilità pratica (ove negato, appunto, anche a fronte di una palese incertezza giurisprudenziale sulla stessa misura del termine in relazione al quale si è consumata la decadenza)".

Osservazioni conclusive

La sentenza annotata merita di ricevere alcune considerazioni e riflessioni finali, volte ad approfondirne il contenuto e a fornire - si spera - ulteriori spunti per chi legge.

L'ambito trattato dalla pronuncia dell'Adunanza Plenaria si rivela infatti essere uno dei più insidiosi per i giuristi e gli scienziati del diritto, i quali si trovano di fronte ad un istituto, quello della concessione, caratterizzato da peculiarità ontologiche rispetto alla tradizionale interpretazione del contratto pubblico, spesso condizionata da preconcetti e pregiudizi.[1]

In particolare, per quanto attiene all'inquadramento della fattispecie concessoria, se la decisione in esame richiama giustamente il magistero della Corte di Giustizia UE (sebbene riferito solo a una delle numerose sentenze emesse dalla medesima relativamente alle concessioni), si concentra prevalentemente sul contesto nazionale, ove capita sovente di non collimare con l'acquis communautaire e lo sviluppo unionale.

Ciò che caratterizza le concessioni e le distingue dagli appalti, per il diritto positivo, è l'assunzione, da parte del concessionario, del rischio operativo, implicato dalla traslazione - dalla p.a. al gestore - dell'incertezza sull'utilità economica dell'erogazione del servizio.

In questa direzione, seppur non proprio allineati, vanno la Corte di Giustizia UE, la direttiva 2014/23/UE ed il nuovo d.lgs. n. 50/2016.

Per contro, nella giurisprudenza interna antecedente si è assistito a pronunciamenti singolari, radicati nella tradizione e influenzati da retaggi passati.

Il riferimento è proprio ai precedenti citati dall'Adunanza Plenaria.

Una menzione particolare merita la Suprema Corte di Cassazione (Sez. un., 27 maggio 2009, n. 12252), la quale, dovendosi esprimere in materia di giurisdizione (si legga il capo 3.5 del considerato in diritto), ha però finito con lo sconfinare nell'impervio campo della qualificazione dei contratti pubblici creando un precedente per certi versi esiziale. Di fronte ad una fattispecie simile a quella in esame, la Suprema Corte ha affermato che "anche se apparentemente finanziato direttamente dagli utenti, il costo di tale servizio è a carico delle risorse della p.a., poiché il prezzo del biglietto, che dovrebbe essere riversato direttamente e per intero alla p.a., viene in parte trattenuto dal gestore del servizio. Inoltre il gestore rende il servizio di biglietteria non in favore dell'utente privato, ma in favore della p.a., per la quale riscuote tale prezzo. Ne consegue che il servizio di biglietteria affidato ad un privato non può costituire, per le ragioni sopra esposte, una concessione di servizio pubblico, ma un appalto di servizio pubblico".[2]

Lasciando in disparte l'ovvia e lapalissiana constatazione che la medesima dinamica (i.e. il concessionario trattiene a sé una quota parte degli introiti quale proprio utile, versando poi un canone concessorio alla p.a.) si configura per ogni servizio concesso (che sia la biglietteria o l'installazione e gestione di un distributore automatico di alimenti e bevande), non si riesce a capire per quale ragione il servizio sia da considerarsi reso alla p.a. - anziché in luogo della p.a. - così costituendo un appalto invece che una concessione.

È pacifico che in ogni concessione il privato si sostituisce alla p.a. nella gestione economica, permanendo in capo alla p.a. la titolarità della funzione in termini di competenza amministrativa.

La controprestazione a favore del concessionario consiste, di regola, unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e sfruttare economicamente tutte le proprie prestazioni.

La forma di remunerazione del privato può variare ed accompagnarsi o meno ad un prezzo.

Nella pratica si passa dai pagamenti diretti degli utenti a quelli diretti della p.a. (e.g. per la disponibilità), passando per quelli indiretti in base all'uso (pedaggi-ombra o shadow-tolls), più altre combinazioni degli stessi; senza ovviamente dimenticare il canone concessorio normalmente incamerato dalla p.a., nonché la distinzione tra concessioni di servizi e concessioni di servizi pubblici.

Il quadro sinottico appena delineato non ritrae appieno la complessità della fattispecie, ma l'argomento meriterebbe una dissertazione appositamente dedicata che qui è impossibile fare.

Il problema interpretativo sorge dalla differente conformazione della concessione, la quale - rispetto al contratto d'appalto - prevede, in veste di normale alea prestazionale, connaturata allo specifico tipo contrattuale, un rischio operativo che condiziona la ricezione del corrispettivo alla risposta del mercato.

Ne deriva un'alea che travalica la soglia della "normalità" osservata negli appalti, ossia quella in cui alla prestazione esatta corrisponde il pagamento del corrispettivo pattuito (salve le normali oscillazioni di valore), per ricadere nella peculiarità della situazione ove la prestazione esatta è remunerata tramite il diritto di sfruttamento economico della medesima nei confronti dell'utenza.

Ciò che fa comunemente pensare ad un rapporto trilaterale (i.e. committenza, prestatore, utenza) nelle concessioni, seppur nulla esclude che la committenza sia pure utenza: a cambiare non è infatti il soggetto ex se, ma il modo in cui interagisce con il prestatore.

In tale prospettiva vanno quindi letti gli altri due precedenti giurisprudenziali richiamati dall'Adunanza Plenaria: Consiglio di Stato, sez. VI, 21 maggio 2014, n. 2624[3] e 16 luglio 2015, n. 3571[4].

È dunque importante far notare che la provenienza della remunerazione dall'utenza della concessione non esaurisce il quadro delle modalità di remunerazione, le quali possono coinvolgere non solo la tipologia di utenza (terzi, p.a., ambedue) ma anche il meccanismo in forza del quale è prevista la remunerazione (prestazione, domanda, disponibilità).

Infine, giova ripetere che il rischio operativo dipende dalle modalità di remunerazione del concessionario ma non coincide con queste (meno che mai con la provenienza della remunerazione).

Non è la provenienza della remunerazione. né tanto meno il destinatario della prestazione, a far pendere l'ago della bilancia in favore dell'appalto o della concessione, bensì il rischio operativo del contraente.

Di conseguenza, non è chi non veda come sia di per sé complicato determinare se l'oggetto di gara sia una concessione di servizi ovvero un appalto di servizi.

Ma ciò è solo parte del problema poiché ad appalti e concessioni sono generalmente dedicate regole diverse in relazione alle procedure di affidamento e - nonostante la decisione dell'Adunanza plenaria in parola - anche in ambito processuale (soprattutto nel riparto di giurisdizione, dove in relazione alle concessioni persiste una certa resistenza della cognizione in capo al giudice amministrativo[5]).

Una simile affermazione trova piena giustificazione nelle righe che seguono, ove vengono brevemente presi in considerazione i principi di diritto enunciati nella pronuncia dell'Adunanza plenaria.

La conclusione principale a cui perviene la sentenza è che gli artt. 119 e 120 del d.lgs. n. 104/2010 sono applicabili alle procedure di affidamento di servizi in concessione.

Ne deriva che alle procedure aventi ad oggetto le concessioni di servizi si applica il rito speciale previsto per gli appalti pubblici ex artt. 119 e 120 c.p.a., con correlato dimezzamento dei termini ordinari di decadenza.

Il merito della decisione dell'Adunanza Plenaria è sicuramente quello di aver chiarificato la confusione esistente in relazione al rito applicabile alle concessioni.

A dispetto dell'apparente diafanità del testo legislativo nel senso della onnicomprensività del rito speciale (destinato a tutte le procedure di affidamento di contratti pubblici), alcuni giudici avevano comunque sviluppato un trattamento differenziato per le concessioni, escludendole dal dimezzamento dei termini processuali e applicando il regime ordinario. Ciò evidenzia inequivocabilmente come nel nostro ordinamento le concessioni siano tuttora oggetto di prassi poco confacenti allo status delle medesime, le quali costituiscono qualcosa di diverso dalle classiche concessioni amministrative conosciute dal diritto nazionale.

Pertanto, nel caso di specie, concernente l'affidamento in concessione del servizio di ristoro tramite distributori automatici di bevande e alimenti, è stato concesso il beneficio della rimessione in termini per errore scusabile, ai sensi dell'art. 37 c.p.a., in favore dell'impresa che ha notificato il ricorso avverso l'affidamento di una concessione dopo la scadenza del termine di decadenza di trenta giorni previsto dall'art. 120, comma 5, c.p.a. (ma nel rispetto di quello, ordinario, di sessanta giorni).

Il pregresso contrasto di indirizzi giurisprudenziali ha così giustificato la rimessione in termini del ricorrente.[6]

A seguito della pronuncia annotata, definitivamente risolutiva del busillis, deve evincersi che d'ora in poi non sarà più ammesso l'errore scusabile sul rito applicabile alle concessioni.

Probabilmente, invece, persisteranno gli errori riguardanti l'inquadramento della fattispecie concessoria.

Nel presente contributo si è tentato di offrire al lettore gli elementi essenziali per addivenire ad una corretta interpretazione delle concessioni, auspicando per il futuro che soprattutto la giurisprudenza nazionale prenda piena coscienza dei caratteri fondamentali dell'istituto, recependo il portato del diritto sovranazionale ed evitando di poggiarsi placidamente sullo stare decisis.

Cosa che non può del tutto dirsi riguardo alla decisione dell'Adunanza Plenaria annotata, la quale ha certamente raggiunto una interpretazione ragionevole, ma fondata su premesse logiche inesatte.

Marco Ceruti (avv.marcoceruti@gmail.com) è Avvocato del foro di Como e Dottore di ricerca in Storia e Dottrina delle Istituzioni presso l'Università degli Studi dell'Insubria. Collabora con l'Osservatorio sul diritto degli appalti pubblici dell'Università di Trento in qualità di membro del comitato di redazione.

[1] Le concessioni tra contratto, accordo e provvedimento amministrativo, in Urbanistica e appalti 6: 637, 2016, e La schizofrenia ermeneutica relativa alle concessioni nell'ordinamento giuridico nazionale: problemi di definizione, di disciplina e di prassi, in Appalti&Contratti, 6: 51, 2016, nonché a L'insostenibile leggerezza delle concessioni: alcune questioni interpretative circa la natura giuridica delle concessioni, nel fascicolo n. 3-4/2016 della Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 807-860.

[2] Cfr. capo 6.1 della sentenza.

[3] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 21 maggio 2014, n. 2624 (massima): Quando un operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi sostanzialmente sull'utente mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto, allora si ha concessione, ragione per cui può affermarsi che è la modalità della remunerazione il tratto distintivo della concessione dall'appalto di servizi. Pertanto, si avrà concessione quando l'operatore si assuma in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull'utenza, mentre si avrà appalto quando l'onere del servizio stesso venga a gravare sostanzialmente sull'amministrazione. Nel caso di specie, la remunerazione spettante alla società in conseguenza dell'affidamento consisteva unicamente nel corrispettivo stabilito in sede di lex specialis - al netto del ribasso di gara - a carico dell'amministrazione comunale e non si accompagnava in alcun modo con ulteriori forme di remunerazione direttamente o indirettamente ricadenti sui fruitori finali dei servizi. Ne consegue che l'affidamento operato dal Comune nei confronti della società deve qualificarsi (non come concessione di servizi, bensì) come appalto di servizi ai sensi del c. 10 dell'art. 3 del D.Lgs. n. 163 del 2006 (Sito Diritto dei Servizi Pubblici.it, 2014).

[4] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 16 luglio 2015, n. 3571 (massima): Con la concessione di servizi una pubblica amministrazione trasferisce ad altro soggetto la gestione di un servizio, che la medesima potrebbe direttamente (ma non può o non intende) svolgere nei confronti di utenti terzi. Il concessionario - a differenza di quanto avviene nell'appalto di servizi (nell'ambito del quale l'Amministrazione riceve dal contraente una prestazione ad essa destinata, in cambio di un corrispettivo) - ottiene il proprio compenso non già dall'Amministrazione ma dall'esterno, ovvero dal pubblico che fruisce del servizio stesso, svolto dall'impresa con assetto organizzativo autonomo e con strumenti privatistici, come è usuale per i servizi alimentari, come quello in esame. Sul piano economico, il rapporto complessivo è dunque trilaterale, poiché coinvolge l'Amministrazione concedente (che resta titolare della funzione trasferita), il concessionario e il pubblico. Il concessionario utilizza quanto ottiene in concessione (nel caso di specie: il servizio con l'utilizzo di spazi interni alla sede dell'ente pubblico) a fini legittimi di lucro, assumendo - come richiede il diritto europeo - il rischio economico connesso alla gestione del servizio, svolto con mezzi propri; per godere delle risorse materiali appartenenti all'Amministrazione, il medesimo normalmente corrisponde un canone e non riceve dall'Amministrazione alcun corrispettivo. In conformità all'art. 30 del Codice dei contratti pubblici, infatti, "la controprestazione [dell'Amministrazione] a favore del concessionario consiste unicamente nel diritto [dato al concessionario] di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente [verso il pubblico] il servizio"(Sito Diritto dei Servizi Pubblici.it, 2015).

[5] Il dualismo in seno al riparto di giurisdizione sull'esecuzione dei contratti pubblici: appalti e concessioni (con riferimento alla giurisprudenza più recente), di Marco Ceruti, in attesa di pubblicazione.

[6] conf. Tar Puglia, Lecce, Sez. II, 15 giugno 2016, n. 971.

Cons. Stato, n. 22/2016

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