Il diritto del minore al principale punto di riferimento abitativo

di Bruno De Filippis, magistrato in Salerno - Il minorenne, suo malgrado coinvolto nella crisi genitoriale e, conseguentemente, in un procedimento di separazione o divorzio, ha diritto di avere il proprio principale punto di riferimento abitativo. Ciò, prima ancora che ai principi di diritto, dettati dall'art. 316 cod. civ. nella formulazione successiva al D. Lvo. 154/2013, risponde alla razionalità ed al buon senso. Non è necessario spendere parole per dimostrare il disagio che chiunque di noi avrebbe se tutte le sue cose fossero divise a metà e non esistesse un posto in cui, quando infine si arriva, ci si sente a casa.

La stessa assegnazione dell'abitazione già familiare, di cui all'art. 337 sexies c.c., è saldamente basata su questa logica, poiché la sua ratio consiste nell'evitare che il figlio perda il luogo cui sono ancorate abitudini e certezze.

Solo se si accetta questo principio può aprirsi il dibattito in ordine al nomen da attribuire al genitore che, unitamente al minore, abiti in tale luogo privilegiato e possono essere accettate proposte come quella di sostituire la definizione "genitore collocatario" con "genitore co-residente" o simili.

È vero che il nome che diamo alle cose influenza le idee ed i comportamenti ed ha senso l'obiezione secondo cui tale definizione, per l'assonanza con "genitore affidatario" potrebbe rallentare, nella società e nella pubblica opinione, il processo di assimilazione del concetto di affidamento condiviso.

Al contrario, ove l'abolizione della definizione di genitore collocatario fosse dettata dall'idea di evitare che il figlio possa avere una residenza privilegiata e dal proposito di riproporre il salomonico affidamento paritario (divisione del figlio, con la spada, al 50%) o il famigerato affidamento alternato, nel quale il figlio, come un satellite, sia costretto a ruotare intorno ai due mondi, ormai separati, dei genitori, appare saggio rifiutare questa prospettiva e riportare il discorso su tematiche più sostanziali.

Ciò che veramente rileva, pur nella richiamata consapevolezza che i nomi hanno la loro importanza, è che la cultura dell'affido condiviso, con la condivisione delle responsabilità genitoriali, la pari dignità dei genitori ed il libero accesso del minore ad entrambi, continuino ad avanzare ed a diffondersi nella società.

Argomenti come la riforma dell'art. 709 ter c.p.c., destinato ad assicurare il rispetto delle decisioni del giudice e degli accordi tra le parti o l'inserimento, nei procedimenti di separazione e divorzio, della mediazione familiare, intesa come percorso intrinseco al processo ed adattata alle sue logiche, appaiono in questa luce molto più importanti delle questioni nominalistiche.

Bruno de Filippis, magistrato in Salerno


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